la società dello spettacolo Guy Debord .pdf
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Autore: Carlo
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La società dello spettacolo
Capitolo I
LA DIVISIONE PERFETTA
"E senza dubbio il nostro tempo... preferisce l'immagine alla cosa, la copia all'originale, la
rappresentazione alla realtà, l'apparenza all'essere... Ciò che per esso è sacro non è che
l'illusione, ma ciò che è profano è la verità. O meglio, il sacro si ingrandisce ai suoi occhi nella
misura in cui al decrescere della verità corrisponde il crescere dell'illusione, in modo tale che
il colmo dell'illusione è anche il colmo del sacro." L. Feuerbach, Prefazione alla seconda
edizione de L'essenza del Cristianesimo.
1
L'intera vita delle società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia
come un immenso accumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è
allontanato in una rappresentazione.
2
Le immagini che si sono staccate da ciascun aspetto della vita, si fondono in un unico
insieme, in cui l'unità di questa vita non può più essere ristabilita. La realtà considerata
parzialmente si dispiega nella propria unità generale in quanto pseudo‐mondo a parte,
oggetto di sola contemplazione. La specializzazione delle immagini del mondo si ritrova,
realizzata, nel mondo dell'immagine resa autonoma, in cui il mentitore mente a se stesso. Lo
spettacolo in generale, come inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del
non‐vivente.
1
3
Lo spettacolo si presenta nello stesso tempo come la società stessa, come parte della
società, e come strumento di unificazione. In quanto parte della società, esso è
espressamente il settore più tipico che concentra ogni sguardo e ogni coscienza. Per il fatto
stesso che questo settore è separato, è il luogo dell'inganno visivo e della falsa coscienza; e
l'unificazione che esso realizza non è altro che un linguaggio ufficiale della separazione
generalizzata.
4
Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato
dalle immagini.
5
Lo spettacolo non può essere compreso come l'abuso di un mondo visivo, il prodotto delle
tecniche di diffusione massiva di immagini. Esso è piuttosto una Weltanschauung divenuta
effettiva, materialmente tradotta. Si tratta di una visione del mondo che si è oggettivata.
6
Lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è nello stesso tempo il risultato e il progetto del
modo di produzione esistente. Non è un supplemento del mondo reale, il suo sovrapposto
ornamento. Esso è il cuore dell'irrealismo della società reale. Nell'insieme delle sue forme
particolari, informazione o propaganda, pubblicità o consumo diretto dei divertimenti, lo
spettacolo costituisce il modello presente della vita socialmente dominante. E'
l'affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione, e il suo consumo ne è
2
corollario. Forma e contenuto dello spettacolo sono ambedue l'identica giustificazione totale
delle condizioni e dei fini del sistema esistente. Lo spettacolo è anche la presenza
permanente di questa giustificazione, in quanto occupazione della parte principale del
tempo vissuto al di fuori della produzione moderna.
7
La separazione fa parte essa stessa dell'unità del mondo, della prassi sociale globale, che si è
scissa in realtà e in immagine. La pratica sociale, di fronte alla quale si pone lo spettacolo
autonomo, è anche la totalità reale che contiene lo spettacolo. Ma la scissione in questa
totalità la mutila al punto da far apparire lo spettacolo come il suo scopo. Il linguaggio dello
spettacolo è strutturato con i segni della produzione imperante, che sono nello stesso tempo
la finalità ultima di questa produzione.
8
Non si possono opporre astrattamente lo spettacolo e l'attività sociale effettiva; questo
sdoppiamento è esso stesso sdoppiato. Lo spettacolo che inverte il reale è effettivamente
prodotto. E nello stesso tempo la realtà vissuta è materialmente invasa dalla contemplazione
dello spettacolo, e riprende in se stessa l'ordine spettacolare, offrendogli un'adesione
positiva. La realtà oggettiva è presente su entrambi i lati. Ogni nozione così fissata non ha
per fondo che il suo passaggio all'opposto: la realtà sorge nello spettacolo e lo spettacolo è
reale. Questa reciproca alienazione è l'essenza e il sostegno della società esistente.
9
Nel mondo falsamente rovesciato, il vero è un momento del falso.
3
10
Il concetto di spettacolo unifica e spiega una gran diversità di fenomeni apparenti. Le loro
diversità e i loro contrasti sono le apparenze di quest'apparenza socialmente organizzata che
dev'essere essa stessa riconosciuta nella propria verità generale. Considerato secondo i suoi
veri termini, lo spettacolo è l'affermazione dell'apparenza e l'affermazione di ogni vita
umana, cioè sociale, come semplice apparenza. Ma la critica, che coglie la verità dello
spettacolo, lo scopre come la negazione visibile della vita; come negazione della vita che è
divenuta visibile.
11
Per descrivere lo spettacolo, la sua formazione, le sue funzioni e le forze che tendono alla
sua dissoluzione, bisogna distinguere artificialmente degli elementi inseparabili. Analizzando
lo spettacolo, si parla in una certa misura il linguaggio stesso dello spettacolare, in quanto si
passa sul terreno metodologico di questa stessa società che si esprime nello spettacolo. Ma
lo spettacolo non è niente altro che il senso della pratica totale di una formazione
economico‐sociale, del suo impiego del tempo. E' il momento storico che ci contiene.
12
Lo spettacolo si presenta come enorme positività indiscutibile e inaccessibile. Esso non dice
niente di più che "ciò che appare è buono, e ciò che è buono appare". L'attitudine che esige
per principio è questa accettazione passiva che esso di fatto ha già ottenuto attraverso il suo
modo di apparire insindacabile, con il suo monopolio dell'apparenza.
13
4
Il carattere fondamentalmente tautologico dello spettacolo, deriva dal semplice fatto che i
suoi mezzi sono nel contempo anche i suoi scopi. E' il sole che non tramonta mai sull'impero
della passività moderna. Esso ricopre tutta la superficie del mondo e si bagna
indefinitamente nella propria gloria.
14
La società basata sull'industria moderna non è fortuitamente o superficialmente
spettacolare, essa è fondamentalmente spettacolista. Nello spettacolo, immagine
dell'economia dominante, il fine non è niente, lo sviluppo è tutto. Lo spettacolo non vuole
realizzarsi che solo in se stesso.
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In quanto indispensabile parure degli oggetti attualmente prodotti, in quanto esposizione
generale della razionalità del sistema, in quanto settore economico avanzato, che manipola
direttamente una crescente moltitudine di immagini‐oggetto, lo spettacolo è la principale
produzione della società attuale.
16
Lo spettacolo sottomette gli uomini viventi nella misura in cui l'economia li ha totalmente
sottomessi. Esso non è altro che l'economia sviluppantesi per se stessa. E' il riflesso fedele
della produzione delle cose e l'oggettivazione infedele dei produttori.
5
17
La prima fase del dominio dell'economia sulla vita sociale aveva originato, nella definizione
di ogni realizzazione umana, un'evidente degradazione dell'essere in avere. La fase presente
dell'occupazione totale della vita sociale da parte dei risultati accumulati dell'economia,
conduce a uno slittamento generalizzato dell'avere nell'apparire, da cui ogni "avere"
effettivo deve desumere il proprio prestigio immediato e la propria funzione ultima. Nello
stesso tempo ogni realtà individuale è divenuta sociale, direttamente dipendente dalla
potenza sociale da essa plasmata. Le è permesso di apparire solo in ciò che essa non è.
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Là dove il mondo reale si cambia in semplici immagini, le semplici immagini diventano degli
esseri reali, e le motivazioni efficienti di un comportamento ipnotico. Lo spettacolo, come
tendenza a far vedere attraverso differenti mediazioni specializzate il mondo che non è più
direttamente percepibile, trova normalmente nella vista il senso umano privilegiato, che in
altre epoche fu il tatto; il senso più astratto, più mistificabile, corrisponde all'astrazione
generalizzata della società attuale. Ma lo spettacolo non è identificabile con il semplice
sguardo, anche se combinato con l'ascolto. Esso è ciò che sfugge all'attività degli uomini, alla
riconsiderazione e alla correzione della loro opera. E' il contrario del dialogo. Dovunque c'è
una rappresentazione indipendente, là lo spettacolo si ricostituisce.
19
Lo spettacolo è l'erede di tutta la debolezza del progetto filosofico occidentale, che costituì
pure una comprensione dell'attività, dominata dalle categorie del vedere; così come si fonda
sull'incessante dispiegamento della precisa razionalità tecnica che è derivata da questo
pensiero. Esso non realizza la filosofia, filosofizza la realtà. E' la vita concreta di tutti che si è
degradata in un universo speculativo.
6
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La filosofia, in quanto potere del pensiero separato, e pensiero del potere separato, non ha
mai potuto da se stessa andare oltre la teologia. Lo spettacolo è la ricostruzione materiale
dell'illusione religiosa. La tecnica spettacolare non ha dissipato le nubi religiose, in cui gli
uomini avevano collocato i propri poteri distaccati da se stessi: essa li ha semplicemente
ricongiunti a una base terrena; così è la vita più terrena che diviene opaca e irrespirabile.
Essa non rigetta più nel cielo, ma alberga in sé il proprio rifiuto, il proprio fallace paradiso. Lo
spettacolo è la realizzazione tecnica dell'esilio dei poteri umani in un al di là; scissione
realizzata all'interno dell'uomo.
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Più la necessità viene ad essere socialmente sognata, più il sogno diviene necessario. Lo
spettacolo è il cattivo sogno della moderna società incatenata, che non esprime in definitiva
se non il proprio desiderio di dormire. Lo spettacolo è il guardiano di questo sonno.
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Il fatto che la potenza pratica della società moderna si sia staccata da se stessa, e si sia
edificata un impero indipendente nello spettacolo, non può spiegarsi che con quest'altro
fatto, che questa potente pratica continuava a mancare di coesione ed era rimasta in
contraddizione con se stessa.
23
E' la più vecchia specializzazione sociale, la specializzazione del potere, che è alla radice dello
spettacolo. Lo spettacolo è quindi un'attività specializzata che parla per l'insieme delle altre.
7
E' la rappresentazione diplomatica della società gerarchica innanzi a se stessa, dove ogni
altra parola è bandita. Il più moderno qui è anche il più arcaico.
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Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l'ordine presente tiene su se stesso, il suo
monologo elogiativo. E' l'autoritratto del potere all'epoca della sua gestione totalitaria delle
condizioni d'esistenza. L'apparenza feticistica della pura oggettività nelle relazioni
spettacolari nasconde il loro carattere di relazione tra uomini e tra classi: una seconda
natura sembra dominare il nostro ambiente con le sue leggi fatali. Ma lo spettacolo non è un
prodotto necessario dello sviluppo tecnico visto come sviluppo naturale. La società dello
spettacolo è al contrario la forma che sceglie il proprio contenuto tecnico. Se lo spettacolo,
esaminato sotto l'aspetto ristretto dei "mezzi di comunicazione di massa", che sono la sua
manifestazione superficiale più soggiogante, può sembrare invadere la società come una
semplice strumentazione, questa non è concretamente nulla di neutro, ma la
strumentazione stessa è funzionale al suo auto‐movimento totale. Se i bisogni sociali
dell'epoca, in cui si sviluppano simili tecniche, non possono trovare soddisfazione se non
tramite la loro mediazione, se l'amministrazione di questa società e ogni contatto fra gli
uomini non possono più esercitarsi se non mediante questa potenza di comunicazione
istantanea, è perché questa "comunicazione" è essenzialmente unilaterale; di modo che la
sua concentrazione consente di accumulare nelle mani dell'amministrazione del sistema
esistente i mezzi che gli permettono di continuare questa amministrazione determinata. La
scissione generalizzata dello spettacolo è inseparabile dallo Stato moderno, vale a dire dalla
forma generale della scissione nella società, prodotta dalla divisione del lavoro sociale e
organo del dominio di classe.
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La separazione è l'alfa e l'omega dello spettacolo. L'istituzionalizzazione della divisione
sociale del lavoro, la formazione delle classi avevano elevato una prima contemplazione
sacra, l'ordine mitico di cui ogni potere si ammanta fin dalle proprie origini. Il sacro ha
giustificato l'ordinamento cosmico e ontologico che corrispondeva agli interessi dei padroni,
ha spiegato e abbellito ciò che la società non poteva fare. Ogni potere separato è dunque
spettacolare, ma l'adesione di tutti a una simile immagine immobile non significava altro che
8
il comune riconoscimento di un prolungamento immaginario alla povertà dell'attività sociale
reale, ancora largamente avvertita come una condizione unitaria. Lo spettacolo moderno al
contrario esprime ciò che la società può fare, ma in questa espressione il permesso si
oppone in modo assoluto al possibile. Lo spettacolo è la conservazione dell'incoscienza nel
cambiamento pratico delle condizioni d'esistenza. Esso è il proprio prodotto, ed è esso
stesso che ha posto le sue regole: si tratta di uno pseudo‐sacro. Esso mostra ciò che è: la
potenza separata sviluppatasi in se stessa, nella crescita della produttività realizzata
mediante il raffinamento incessante della divisione del lavoro nella parcellizzazione dei gesti,
allora dominati dal movimento indipendente delle macchine, al lavoro per un mercato
sempre più esteso. Ogni comunità e ogni senso critico si sono dissolti nel corso di questo
movimento, nel quale le forze che hanno potuto crescere separandosi non si sono ancora
ritrovate.
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Con la divisione generalizzata del lavoratore e del suo prodotto, si perde ogni punto di vista
unitario dell'attività svolta, si perde ogni comunicazione personale diretta tra i produttori.
Seguendo il progresso dell'accumulazione dei prodotti divisi e della concentrazione del
processo produttivo, l'unità e la comunicazione divengono attributo esclusivo della direzione
del sistema. Il successo del sistema economico della separazione è la proletarizzazione del
mondo.
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Per la riuscita stessa della produzione separata in quanto produzione del separato,
l'esperienza fondamentale, legata nelle società primitive a un lavoro principale, sta
spostandosi al polo dello sviluppo del sistema, verso il non‐lavoro, l'inattività. Ma questa
inattività non è per nulla liberata dall'attività produttiva: dipende da essa, è una
sottomissione inquieta e ammirativa alle necessità e ai risultati della produzione: è essa
stessa un prodotto della sua razionalità. Non ci può essere libertà al di fuori dell'attività, e
nell'ambito dello spettacolo ogni attività è negata, esattamente come l'attività reale è stata
integralmente captata per l'edificazione globale di questo risultato. Così l'attuale
"liberazione dal lavoro", l'aumento dei divertimenti, non costituiscono in alcun modo
liberazione nel lavoro, né liberazione di un mondo modellato da questo lavoro. Nulla
9
dell'attività rubata nel lavoro può ritrovarsi nella sottomissione al suo risultato.
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Il sistema economico fondato sull'isolamento è una produzione circolare dell'isolamento.
L'isolamento fonda la tecnica, e il processo tecnico isola a sua volta. Dall'automobile alla
televisione, tutti i beni selezionati dal sistema spettacolare sono anche le sue armi per il
rafforzamento costante delle condizioni d'isolamento delle "folle solitarie". Lo spettacolo
ritrova sempre più concretamente i propri presupposti.
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L'origine dello spettacolo è la perdita dell'unità del mondo; e l'espansione gigantesca dello
spettacolo moderno esprime la totalità di questa perdita: l'astrazione di ogni lavoro
particolare e l'astrazione generale della produzione d'insieme si traducono perfettamente
nello spettacolo, il cui modo di essere concreto è giustamente l'astrazione. Nello spettacolo,
una parte del mondo si rappresenta davanti al mondo, e gli è superiore. Lo spettacolo non è
che il linguaggio comune di questa separazione. Ciò che lega gli spettatori non è che un
rapporto irreversibile allo stesso centro che mantiene il loro isolamento. Lo spettacolo
riunisce il separato ma lo riunisce in quanto separato.
30
L'alienazione spettatore a vantaggio dell'oggetto contemplato (che è il risultato della propria
attività incosciente) si esprime così: più esso contempla, meno vive; più accetta di
riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria esistenza e il
proprio desiderio. L'esteriorità dello spettacolo, in rapporto all'uomo agente, si manifesta
nel fatto che i suoi gesti non sono più suoi, ma di un altro che glieli rappresenta. Questo
perché lo spettatore non si sente a casa propria da nessuna parte, perché lo spettacolo è
10
dappertutto.
31
Il lavoratore non produce più se stesso, egli produce una potenza indipendente. Il successo
di questa produzione, la sua abbondanza, ritorna al produttore come abbondanza
dell'espropriazione. Tutto il tempo e lo spazio del suo mondo gli divengono estranei con
l'accumulazione dei suoi prodotti alienati. Lo spettacolo è la mappa di questo nuovo mondo,
mappa che copre esattamente lo spazio del suo territorio. Le forze stesse che ci sono
sfuggite si mostrano a noi in tuta la loro potenza.
32
Lo spettacolo nella società corrisponde a una fabbricazione concreta dell'alienazione.
L'espansione economica è principalmente l'espansione di questa produzione industriale
precisa. Ciò che cresce con l'economia, muovendosi autonomamente per se stessa, non può
essere che l'alienazione che era propriamente insita nel suo nucleo originario.
33
L'uomo separato dal proprio prodotto sempre più potentemente produce esso stesso tutti i
dettagli del proprio mondo. Quanto più la vita è ora il suo prodotto, tanto più è separato
dalla propria vita.
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11
Lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine.
12
Capitolo II
LA MERCE COME SPETTACOLO
"Perché è solo come categoria universale dell'essere sociale totale che la merce può essere
compresa nella sua essenza autentica. E' solo in questo contesto che la reificazione, sorta dal
rapporto mercantile, acquisisce un significato decisivo, sia per l'evoluzione oggettiva della
società che per l'atteggiamento degli uomini al suo riguardo, per la sottomissione della loro
coscienza alle forme nelle quali tale reificazione si esprime... Questa sottomissione viene
ancor più accentuata dal fatto che più la razionalizzazione e la meccanizzazione del processo
lavorativo aumentano, più l'attività del lavoratore perde il suo carattere di attività per
divenire una attitudine contemplativa." G. Lukàcs , Storia e coscienza di classe.
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In questo movimento essenziale dello spettacolo, che consiste nel riprendere in sé tutto ciò
che esisteva nell'attività umana allo stato fluido, per possederlo allo stato coagulato, in
quanto cose che sono divenute valore esclusivo per la loro formulazione in negativo del
valore vissuto, riconosciamo la nostra vecchia nemica che sa così bene apparire
nell'immediato come qualcosa di triviale e di evidente, mentre al contrario è così complessa
e colma di sottigliezze metafisiche: la merce.
36
E' il principio del feticismo della merce, il dominio della società attraverso "cose
sovrasensibili in quanto sensibili" che si realizza in modo assoluto nello spettacolo, dove il
mondo sensibile si trova sostituito da una selezione di immagini che esiste al di sopra di esso,
e che nello stesso tempo si fa riconoscere come il sensibile per eccellenza.
1
37
E' il mondo contemporaneamente presente e assente che lo spettacolo fa vedere, il mondo
della merce che domina su tutto ciò che è vissuto. E il mondo della merce è così mostrato
come è, perché il suo movimento è identico all'allontanamento degli uomini tra loro e
rispetto al loro prodotto globale.
38
La perdita della qualità, così evidente a tutti i livelli del linguaggio spettacolare, degli oggetti
che loda e delle condotte che regola, non fa che tradurre i caratteri fondamentali della
produzione reale che scarta la realtà: la forma‐merce è da parte a parte l'uguaglianza a se
stessa, la categoria quantitativa. E' il quantitativo che essa sviluppa e non può che svilupparsi
in esso.
39
Questo sviluppo che esclude il qualitativo è esso stesso sottomesso, in quanto sviluppo, al
passaggio qualitativo: lo spettacolo significa che è andato oltre la soglia della propria
abbondanza. Ciò non è ancora localmente vero che su qualche punto, ma è già vero al livello
universale che costituisce il piano di riferimento originale della merce, riferimento che il suo
movimento pratico ha determinato, unificando la Terra come mercato mondiale.
40
Lo sviluppo delle forze produttive è stato la vera storia inconscia che ha costituito e
modificato le condizioni d'esistenza dei gruppi umani, in quanto condizioni di sopravvivenza
2
e ampliamento di queste condizioni: la base economica di tutte le loro imprese. Il settore
della merce ha rappresentato, all'interno di un'economia naturale, la costituzione di un
surplus della sopravvivenza. La produzione delle merci, che implica lo scambio di prodotti
diversi fra produttori indipendenti, ha potuto rimanere a lungo artigianale, contenuta in una
funzione economica marginale in cui la sua verità quantitativa è ancora mascherata.
Tuttavia, là dove essa ha incontrato le condizioni sociali del grande commercio e
dell'accumulazione di capitali, ha conquistato il dominio totale dell'economia. L'economia
tutta intera è diventata allora ciò che la merce aveva mostrato d'essere nel corso di tale
conquista: un processo di sviluppo quantitativo. Questo incessante sviluppo della potenza
economica sotto forma di merce, che ha trasfigurato il lavoro umano in lavoro‐merce, in
salariato, porta cumulativamente a un'abbondanza nella quale la questione primaria della
sopravvivenza è senza dubbio risolta, ma in modo tale che deve sempre riproporsi; essa è
ogni volta posta di nuovo a un livello superiore. La crescita economica libera le società dalla
pressione naturale che esigeva la loro lotta immediata per la sopravvivenza, ma allora è dal
loro liberatore che esse non sono liberate. L'indipendenza della merce si è estesa all'insieme
dell'economia sulla quale domina. L'economia trasforma il mondo, ma lo modifica solo in
mondo dell'economia. La pseudonatura, nella quale il lavoro umano si è alienato, esige di
proseguire all'infinito il suo servizio, e questo servizio, che essendo giudicato e assolto se
non da se stesso, ottiene infatti la totalità degli sforzi e dei progetti socialmente leciti, come
suoi servitori. L'abbondanza delle merci, vale a dire del rapporto mercantile, non può più
essere altro che la sopravvivenza aumentata.
41
Il dominio della merce si è inizialmente esercitato anzitutto in maniera occulta sull'economia,
la quale, in quanto base materiale della vita sociale, restava indistinguibile e incompresa,
come il familiare che non è tuttavia conosciuto. In una società in cui la merce concreta resta
rara o minoritaria, si afferma il dominio apparente del denaro che si presenta come
l'emissario munito di pieni poteri che parla a nome di una potenza sconosciuta. Con la
rivoluzione industriale, la divisione manifatturiera del lavoro e la produzione massiva per il
mercato mondiale, la merce appare effettivamente come una potenza che va realmente ad
occupare la vita sociale. E' allora che si costituisce l'economia politica come scienza del
dominio.
42
3
Lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all'occupazione totale della vita
sociale. Non solo il rapporto con la merce è visibile, ma non si vede altro che quello: il mondo
che si vede è il suo mondo. La produzione economica moderna estende la propria dittatura
estensivamente e intensivamente, Nelle zone meno industrializzate, il suo dominio è già
presente con qualche merce‐vedette e in quanto dominio imperialistico presente nelle zone
che sono in testa nello sviluppo della produttività. In queste zone avanzate, lo spazio sociale
è invaso dalla sovrapposizione continua di strati geologici di merci. A questo punto "della
seconda rivoluzione industriale", il consumo alienato diviene per la massa un dovere
supplementare alla produzione alienata. E' tutto il lavoro venduto di una società che diviene
globalmente la merce totale, il cui ciclo deve proseguire. Per fare ciò, bisogna che questa
merce totale ritorni frammentariamente all'individuo frammentario, assolutamente
separato dalle forze produttive operanti come un insieme. E' dunque qui che la scienza
specializzata del dominio deve specializzarsi a sua volta: ed essa si segmenta in sociologia,
psicotecnica, cibernetica, semiologia ecc., presiedendo all'autoregolazione di tutti i livelli del
processo.
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Mentre nella fase primitiva dell'accumulazione capitalistica "l'economia politica non vede nel
proletario che l'operaio", ovvero colui che deve ricevere il minimo indispensabile per la
conservazione della propria forza‐lavoro, senza mai considerarlo "nei suoi svaghi e nella sua
umanità", questa posizione delle idee della classe dominante si inverte nel momento in cui il
grado d'abbondanza raggiunto nella produzione delle merci esige un surplus di
collaborazione da parte dell'operaio. Questo operaio subito lavato dal disprezzo totale che
gli è chiaramente manifestato attraverso tutte le modalità di organizzazione e di sorveglianza
della produzione, si ritrova ogni giorno al di fuori di essa, apparentemente trattato come una
grande persona, con una premurosa cortesia, sotto il travestimento del consumatore. Allora
l'umanesimo della merce prende in carico "gli svaghi e l'umanità" del lavoratore,
semplicemente perché l'economia politica può e deve ora dominare queste sfere in quanto
economia politica. Così "il rinnegamento compiuto dell'uomo" ha saturato la totalità
dell'esistenza umana.
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4
Lo spettacolo è una permanente guerra dell'oppio per far accettare l'identificazione dei beni
con le merci, e della soddisfazione con la sopravvivenza aumentata secondo le proprie leggi.
Ma se la sopravvivenza consumabile è qualcosa che deve sempre aumentare, è perché essa
non cessa di contenere la privazione. Se non c'è nessuno al di là della sopravvivenza
aumentata, nessun punto dove potrebbe terminare la sua crescita, è perché non è essa
stessa al di là della privazione, ma è la privazione stessa divenuta più ricca.
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Con l'automazione, che è nello stesso tempo il settore più avanzato dell'industria moderna e
il modello in cui si riassume perfettamente la sua pratica, bisogna che il mondo della merce
superi questa contraddizione: la strumentazione tecnica, che sopprime obiettivamente il
lavoro, deve nel contempo conservare il lavoro come merce e solo luogo di nascita della
merce. Perché l'automazione, o ogni altra forma meno estrema dell'aumento della
produttività del lavoro, non diminuisca effettivamente il tempo di lavoro sociale necessario
su scala sociale, è necessario creare dei nuovi impieghi. Il settore terziario, i servizi,
costituiscono l'immenso sviluppo di un piano strategico dell'esercito della distribuzione e
dell'elogio delle merci attuali; mobilitazione di forze supplementari in opportuna
corrispondenza, nell'artificiosità stessa dei bisogni relativi a tali merci, con la necessità di una
tale organizzazione del dopo‐lavoro.
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Il valore di scambio ha potuto formarsi solo come agente del valore d'uso, ma la sua vittoria
con armi proprie ha creato le condizioni del suo dominio autonomo. Mobilitando ogni uso
umano e guadagnando il monopolio del suo soddisfacimento, ha finito per dirigere l'uso. Il
processo di scambio si è identificato con ogni uso possibile e l'ha ridotto alla sua mercé. Il
valore di scambio è il condottiero del valore d'uso, che finisce per condurre la guerra per
proprio conto.
5
47
Questa costante dell'economia capitalistica che rappresenta la caduta tendenziale del valore
d'uso sviluppa una nuova forma di produzione all'interno della sopravvivenza aumentata, la
quale non si è affatto affrancata dall'antica penuria, poiché esige la partecipazione della
grande maggioranza degli uomini, come lavoratori salariati, al proseguimento infinito del suo
sforzo, e che ciascuno sappia che vi si deve sottomettere o morire. E' la realtà di questo
ricatto, il fatto che l'uso sotto la sua forma più povera (mangiare, abitare) non esiste più se
non imprigionato nella ricchezza illusoria della sopravvivenza aumentata, è questa la base
reale dell'accettazione dell'illusione in generale nel consumo delle merci moderne. Il
consumatore reale diviene consumatore di illusioni. La merce è questa illusione
effettivamente reale, e lo spettacolo la sua manifestazione generale.
48
Il valore d'uso, che era implicitamente contenuto nel valore di scambio, dev'essere ora
esplicitamente proclamato, nella realtà invertita dello spettacolo, perché la sua realtà
effettiva è erosa dall'economia mercantile sovrasviluppata e perché una
pseudogiustificazione diviene necessaria alla vita falsa.
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Lo spettacolo è l'altra faccia del denaro: l'equivalente generale astratto di tutte le merci. Ma
se il denaro ha dominato la società in quanto rappresentazione dell'equivalenza centrale,
cioè del carattere di scambio dei beni multipli il cui uso rimaneva incomparabile, lo
spettacolo è il suo complemento moderno, sviluppato dove la totalità del mondo mercantile
appare in blocco, come un'equivalenza generale di ciò che l'insieme della società può essere
e fare. Lo spettacolo è il denaro che si guarda soltanto, perché già in esso è compresa la
totalità dell'uso che si è scambiata contro la totalità della rappresentazione astratta. Lo
spettacolo non è solo il servitore dello pseudouso, è già in se stesso lo pseudouso della vita.
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Il risultato concentrato del lavoro sociale, nel momento dell'abbondanza economica, diviene
apparente e sottomette ogni realtà all'apparenza, che è ora il suo prodotto. Il capitale non è
più il centro invisibile che dirige il modo della produzione: la sua accumulazione lo espande
fino alla periferia sotto forma di oggetti sensibili. Tutta l'estensione della società è il suo
ritratto.
51
La vittoria dell'economia autonoma dev'essere, nello stesso tempo, la sua sconfitta. Le forze
che ha scatenato sopprimono la necessità economica che è stata la base immutabile delle
società antiche. Quando essa la rimpiazza con la necessità dello sviluppo economico infinito,
essa non può che rimpiazzare il soddisfacimento dei primi bisogni umani sommariamente
riconosciuti, con una fabbricazione ininterrotta di pseudobisogni che si riconducono tutti al
solo pseudobisogno del mantenimento del suo dominio. Ma l'economia autonoma si separa
per sempre dal suo bisogno profondo, nella misura stessa in cui esce dall'inconscio sociale,
da cui essa dipendeva senza saperlo. "Tutto ciò che è conscio si consuma. Ciò che è inconscio
resta inalterabile. Ma una volta liberato, non cade in rovina a sua volta?" (S. Freud)
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Nel momento in cui la società scopre che essa dipende dall'economia, l'economia di fatto
dipende da essa. Questa potenza sotterranea che si è accresciuta fino ad apparire sovrana,
ha in tal modo perduto la sua potenza. Là dove c'era l'es economico, deve venire l'io. Il
soggetto non può emergere che dalla società, cioè dalla lotta che è in essa stessa. La sua
esistenza possibile è sospesa ai risultati della lotta di classe che si rivela come il prodotto e il
produttore della fondazione economica della storia.
7
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La coscienza del desiderio e il desiderio della coscienza sono identicamente questo progetto
che, nella sua forma negativa, vuole l'abolizione delle classi, cioè il controllo diretto dei
lavoratori su tutti i momenti della loro attività. Il suo contrario è la società dello spettacolo,
in cui la merce contempla se stessa in un mondo che essa ha creato.
8
Capitolo III
UNITA' E DIVISIONE NELL'APPARENZA
"Una nuova e animata polemica si sviluppa nel paese, sul fronte della filosofia a proposito
dei concetti "uno si divide in due" e "due si fondono in uno". Questo dibattito si presenta
come lotta fra coloro che sono a favore e coloro che sono contro la dialettica materialistica,
una lotta tra due concezioni del mondo: la concezione proletaria e la concezione borghese.
Coloro che sostengono che "uno si divide in due" è la legge fondamentale delle cose si
tengono dalla parte della dialettica materialistica: quelli invece che sostengono che la legge
fondamentale delle cose è "due si fondono in uno" sono contro la dialettica materialistica. Le
due parti hanno tracciato una netta linea di demarcazione tra loro e i loro argomenti sono
diametralmente opposti. Questa polemica riflette sul piano ideologico la lotta di classe acuta
e complessa che si sviluppa in Cina e nel mondo." Bandiera Rossa, Pechino, 21 settembre
1964.
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Lo spettacolo, come la società moderna, è nello stesso tempo unito e diviso. Come questa,
esso costruisce la propria unità sulla lacerazione. Ma la contraddizione, quando emerge nello
spettacolo, è a sua volta contraddetta per un ribaltamento del suo senso; di modo che la
divisione mostrata è unitaria.
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E' la lotta dei poteri che si sono costituiti per la gestione dello stesso sistema socio‐
economico, che si presenta come contraddizione ufficiale, appartenendo di fatto all'unità
reale: e questo su scala mondiale come anche all'interno di ogni nazione.
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Le false lotte spettacolari delle forme rivali del potere separato sono nello stesso tempo
reali, in quanto traducono lo sviluppo ineguale e conflittuale del sistema, gli interessi
relativamente contraddittori delle classi o dei segmenti delle classi che riconoscono il
sistema, e definiscono la propria partecipazione al suo potere. Allo stesso modo come lo
sviluppo dell'economia più avanzata viene a costituire lo scontro di certe priorità con altre,
così la gestione totalitaria dell'economia da parte di una burocrazia di Stato e la condizione
dei paesi che si sono trovati posti nella sfera della colonizzazione o della semicolonizzazione,
sono definite da considerevoli particolarità nelle modalità della produzione e del potere.
Queste diverse opposizioni possono darsi, nello spettacolo, secondo criteri del tutto
differenti, come forme di società assolutamente distinte. Ma secondo la loro effettiva realtà
di settori particolari, la verità della loro particolarità risiede nel sistema universale che li
contiene: nel movimento unico che ha fatto del pianeta il proprio campo di battaglia, il
capitalismo.
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La società portatrice di spettacolo non domina solo mediante l'egemonia economica le
regioni sottosviluppate. Le domina in quanto società dello spettacolo. Là dove la base
materiale è ancora assente, la società moderna ha già invaso in modo spettacolare la
superficie sociale di ogni continente. Essa definisce il programma di una classe dirigente e
presiede alla sua costituzione. Nello stesso modo in cui presenta gli pseudobeni da
desiderare, essa offre ai rivoluzionari locali i falsi modelli di rivoluzione. Lo spettacolo proprio
del potere burocratico che controlla alcuni dei paesi industriali fa precisamente parte dello
spettacolo totale, come sua pseudonegazione generale, e suo sostegno. Se lo spettacolo,
visto nelle sue diverse localizzazioni, mostra l'evidenza delle specializzazioni totalitarie della
parola e dell'amministrazione sociali, questa vanno poi a fondersi, a livello del
funzionamento globale del sistema, in una divisione mondiale di compiti spettacolari.
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2
La divisione dei compiti spettacolari che conserva le generalità dell'ordine esistente,
conserva principalmente il polo dominante del suo sviluppo. La radice dello spettacolo è nel
terreno dell'economia divenuta abbondante, ed è da qui che vengono i frutti che tendono
alla fine a dominare il mercato spettacolare, a dispetto delle barriere protezionistiche
ideologico‐poliziesche di qualsiasi spettacolo locale con pretese autarchiche.
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Il movimento di banalizzazione che, sotto i mutevoli diversivi brillanti dello spettacolo,
domina a livello mondiale la società moderna, la domina anche su ciascuno dei punti in cui il
consumo sviluppato dalle merci ha moltiplicato in apparenza i ruoli e gli oggetti da scegliere.
La sopravvivenza della religione e della famiglia ‐ che rimane la forma principale del retaggio
del potere di classe ‐ e dunque della repressione morale che essa assicura, possono
combinarsi come un'unica cosa, con l'affermazione ridondante del godimento di questo
mondo, essendo prodotto solo come pseudogodimento che sostiene in sé la repressione.
All'accettazione beata dell'esistente può anche unirsi come un'unica cosa la rivolta
puramente spettacolare: ciò traduce il semplice fatto che l'insoddisfazione è divenuta essa
stessa merce, dal momento che l'abbondanza economica si è trovata in grado di estendere la
sua produzione fino al trattamento di una tale materia prima.
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Concentrando in sé l'immagine di un ruolo possibile, la vedette, rappresentazione
spettacolare dell'uomo vivente, concentra dunque questa banalità. La condizione di vedette
è la specializzazione del vissuto apparente, l'oggetto d'identificazione alla vita apparente
senza profondità, che deve compensare il frazionamento delle specializzazioni produttive
effettivamente vissute. Le vedette esistono per rappresentare tipi variati di stili di vita e di
stili di comprensione della società, liberi di esercitarsi globalmente. Esse incarnano il
risultato inaccessibile del lavoro sociale, mimando dei sottoprodotti di questo lavoro, che
sono magicamente trasferiti al di sopra di esso come suo fine: il potere e le vacanze, la
decisione e il consumo, che sono all'inizio e alla fine di un processo indiscusso. Là, è il potere
governativo che si personalizza in pseudovedette; qui è la vedette del consumo che si fa
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riconoscere plebiscitariamente come pseudopotere sul vissuto. Me come queste attività
delle vedette non sono realmente globali, allo stesso modo esse non sono neanche variate.
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L'agente dello spettacolo messo in scena come vedette è il contrario dell'individuo, il nemico
dell'individuo per se stesso come ovviamente per gli altri. Passando nello spettacolo come
modello d'identificazione, egli ha rinunciato ad ogni qualità autonoma per identificarsi con la
legge generale dell'obbedienza al corso delle cose. La vedette del consumo, mentre è
esteriormente la rappresentazione di differenti tipi di personalità, mostra ciascuno di questi
tipi come avente ugualmente accesso alla totalità del consumo, dove troverà parimenti la
sua felicità. La vedette che decide deve possedere lo stock completo di quelle che sono state
ammesse come qualità umane. Così tra loro le divergenze ufficiali sono annullate dalla
conformità ufficiale, che è il presupposto della loro eccellenza in tutto. Kruscev era stato
fatto generale per risolvere la battaglia di Kursk, non sul campo, ma nel ventesimo
anniversario, quando era padrone dello Stato. Kennedy era rimasto oratore fino a
pronunciare il proprio necrologio, poiché Theodore Sørensen continuava in quel momento a
redigere per il successore i discorsi in quello stile che era stato così importante per far
conoscere la personalità dello scomparso. I personaggi ammirevoli in cui il sistema si
personifica sono ben noti per non essere ciò che sono: sono divenuti grandi uomini
scendendo al di sotto della realtà della minima vita individuale, e tutti lo sanno.
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La falsa scelta nel campo dell'abbondanza spettacolare, scelta che risiede nella
giustapposizione di spettacoli concorrenziali e solidali, come nella sovrapposizione dei ruoli
(principalmente significati e veicolati da oggetti), che sono contemporaneamente esclusivi e
ramificati, si sviluppa in lotte di qualità fantomatiche, destinate ad appassionare l'adesione
alla trivialità quantitativa. Così rinascono le false opposizioni arcaiche dei regionalismi o dei
razzismi incaricati di trasfigurare in superiorità ontologica fantastica la volgarità delle
posizioni gerarchiche nel consumo. Così si ricompone l'interminabile serie dei contrasti
derisori, che mobilitano un interesse sottoludico, dallo sport alle elezioni. Laddove ha preso
possesso il consumo abbondante, emerge un'opposizione spettacolare principale fra la
gioventù e gli adulti; perché non esiste da nessuna parte l'adulto, padrone della propria vita,
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e la gioventù, la trasformazione di ciò che esiste, non è affatto appannaggio degli uomini che
oggi sono giovani, ma del sistema economico, del dinamismo del capitalismo. Queste sono le
cose che dominano e che son giovani: che sostituiscono se stesse.
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E' l'unità della miseria che si nasconde sotto le opposizioni spettacolari. Se delle forme
diverse della stessa alienazione si combattono sotto le maschere della scelta totale, è perché
sono tutte costruite sulle contraddizioni reali rimosse. Secondo le necessità dello stadio
particolare della miseria che esso smentisce e sostiene, lo spettacolo esiste sotto una forma
concentrata o in una forma diffusa. In entrambi i casi, esso non è che un'immagine di
unificazione felice, circondata di desolazione e di spavento, al centro tranquillo
dell'ìinfelicità.
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La concentrazione dello spettacolare è parte essenziale del capitalismo burocratico, per
quanto questo possa essere importato come tecnica del potere statale su economie miste
più arretrate, o in certi momenti di crisi del capitalismo avanzato. La proprietà burocratica, in
effetti, è essa stessa concentrata, nel senso che il singolo burocrate non ha rapporti con il
possesso dell'economia globale, se non tramite la comunità burocratica, in quanto membro
di questa comunità. Inoltre la produzione di merci, meno sviluppata, si presenta a sua volta
sotto forma concentrata: la merce che la burocrazia detiene è lavoro sociale totale, e ciò che
essa rivende alla società è la sua sopravvivenza in blocco. La dittatura dell'economia
burocratica non può lasciare alle masse sfruttate nessun valido margine di scelta, poiché
essa ha dovuto scegliere tutto da sé, e ogni altra scelta esteriore relativa all'alimentazione o
alla musica, è dunque già una scelta della propria completa distruzione. Essa deve
accompagnarsi ad una violenza permanente. L'immagine imposta del bene, nel suo
spettacolo, raccoglie la totalità di ciò che esiste ufficialmente, e si concentra normalmente su
un sol uomo, che è il garante della sue coesione totalitaria. Con questa vedette assoluta
devono magicamente identificarsi o scomparire. Perché si tratta del padrone del suo non‐
consumo e dell'immagine eroica di un certo senso accettabile per lo sfruttamento assoluto,
che costituisce la realtà dell'accumulazione primitiva e accelerata dal terrore. Se ogni cinese
deve imparare Mao, e così essere Mao, è perché non ha nessun altro da essere. Là dove
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domina lo spettacolare concentrato, domina anche la polizia.
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Lo spettacolare diffuso accompagna l'abbondanza delle merci, lo sviluppo imperturbato del
capitalismo moderno. Qui ogni merce presa a sé è giustificata in nome della grandezza della
produzione e della totalità degli oggetti, di cui lo spettacolo è un catalogo apologetico. Delle
affermazioni inconciliabili si accalcano sulla scena dello spettacolo unificato dell'economia
abbondante; allo stesso modo differenti merci‐vedette sostengono simultaneamente i loro
progetti contraddittori di pianificazione della società; per questo lo spettacolo delle
automobili vuole una circolazione perfetta che distrugge le vecchie città, mentre lo
spettacolo della città stessa ha bisogno di quartieri‐museo. Dunque la soddisfazione, già
problematica, che si reputa appartenere al consumo dell'insieme è immediatamente
falsificata per il fatto che il consumatore reale non può direttamente afferrare che una
successione di frammenti di questa felicità mercantile, frammenti in cui ogni volta la qualità
attribuita all'insieme è evidentemente assente.
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Ogni merce determinata lotta per se stessa, non può riconoscere le altre, pretende di
imporsi ovunque come se fosse la sola. Lo spettacolo allora è il canto epico di questo
scontro, al quale neanche la caduta di alcune illusioni potrebbe porre fine. Lo spettacolo non
canta gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro passioni. E' in questa lotta cieca che ogni
merce, seguendo la sua passione, realizza in effetti nell'inconscio qualcosa di più elevato: il
divenire‐mondo della merce, che corrisponde al divenire‐merce del mondo. Così, per
un'astuzia della ragione mercantile, il particolare della merce si logora combattendo, mentre
la forma‐merce va verso la sua realizzazione assoluta.
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La soddisfazione che la merce abbondante nel suo uso non può più dare continua ad essere
cercata nel riconoscimento del suo valore in quanto merce: è l'uso della merce che basta a
se stesso e, per il consumatore, l'effusione religiosa verso la libertà sovrana della merce. Le
ondate d'entusiasmo per un dato prodotto, sostenuto e rilanciato da tutti i mezzi
d'informazione, si propagano così a una grandissima velocità. Uno stile di abbigliamento
nasce da un film: una rivista lancia dei club, che lanciano a loro volta panoplie diverse. Il
gadget esprime il fatto che, nel momento in cui la massa delle merci scivola verso
l'aberrazione, l'aberrante stesso diventa una merce speciale. Nei portachiave pubblicitari,
per esempio, non più acquistati ma distribuiti come doni supplementari che accompagnano
gli oggetti di prestigio venduti o che derivano mediante scambio dalla loro sfera originaria, si
può riconoscere la manifestazione di un abbandono mistico alla trascendenza della merce.
Colui che collezione i portachiavi, appena fabbricati per essere collezionati, accumula le
indulgenze della merce, un segno glorioso della sua presenza reale tra i suoi fedeli. L'uomo
reificato esibisce la prova della propria intimità con la merce. Come nei raptus dei
convulsionari o dei miracolati del vecchio feticismo religioso, il feticismo della merce arriva a
momenti di fervente eccitazione., Il solo uso che qui si esprime ancora è l'uso fondamentale
della sottomissione.
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Senza dubbio, allo pseudobisogno imposto nel moderno consumo non può essere opposto
nessun bisogno o desiderio autentico, che non sia esso stesso modellato dalla società e dalla
sua storia. Ma la merce abbondante rappresenta la rottura assoluta dello sviuppo organico
dei bisogni sociali. La sua accumulazione meccanica libera un artificaile illimitato, di fronte al
quale il desiderio vivente resta disarmato. La potenza cumulativa di un artificiale
indipendente comporta dovunque la falsificazione della vita sociale.
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Nell'immagine dell'unificazione felice della società mediante il consumo, la divisione reale è
soltanto sospesa fino al prossimo non‐realizzato nel consumabile. Ogni prodotto particolare
che deve rappresentare la speranza di una scorciatoia folgorante per accedere finine alla
terra promessa del consumo totale, è presentato cerimoniosamente ogni volta come la
singolarità decisiva. ma come nel caso della diffusione istantanea delle mode dei nomi
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apparentemente aristocratici che si trovano poi ad essere portati da tutti gli individui della
stessa epoca, l'oggetto da cui ci si attende un singolare potere non ha potuto essere
proposto alla devozione delle masse solo perché era stato tirato in numero di esemplari
abbastanza grande per poter essere consumato massivamente. Il carattere prestigioso di
questo prodotto qualsiasi, deriva solo dall'essere stato posto per un attimo al centro della
vita sociale come mistero svelato della finalità della produzione. L'oggetto che era stato
prestigioso nello spettacolo diviene volgare nell'istante in cui entra nella casa del
consumatore, e contemporaneamente nella casa di tutti gli altri. Esso rivela troppo tardi la
sua povertà essenziale, che gli deriva naturalmente dalla miseria della sua produzione. Ma
già è un altro oggetto, portatore della giustificazione del sistema e dell'esigenza di essere
riconosciuto.
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L'impostura della soddisfazione deve denunciarsi da sé stessa nel rimpiazzarsi, nel seguire il
mutare dei prodotti e quello delle condizioni generali della produzione. Ciò che ha affermato
con la più perfetta impudenza la propria eccellenza definitiva tuttavia muta, nello spettacolo
diffuso come nello spettacolo concentrato, ed è solo il sistema che deve continuare: Stalin
come la merce fuori moda sono denunciati dagli stessi che li hanno imposti. Ogni nuova
menzogna della pubblicità è anche la confessione della precedente menzogna. Ogni crollo di
una figura del potere totalitario rivela la comunità illusoria che l'approvava unanimemente e
che non era che un agglomerato di solitudini senza illusioni.
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Ciò che lo spettacolo dà come perpetuo è fondato sul cambiamento, e deve cambiare con la
sua base. Lo spettacolo è assolutamente dogmatico e nello stesso tempo non può realmente
portare a nessun solido dogma. Niente per esso si ferma; è questo lo stato che gli è naturale
e tuttavia il più contrario alla sua inclinazione.
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L'unità irreale che lo spettacolo proclama è la maschera della divisione di classe su cui riposa
l'unità reale del modo di produzione capitalistico. Ciò che obbliga i produttori a partecipare
all'edificazione del mondo è anche ciò che da questo mondo li esclude. Ciò che mette in
relazione gli uomini affrancati dalle loro limitazioni locali e nazionali è anche ciò che li
allontana. Ciò che obbliga all'approfondimento del razionale è anche ciò che nutre
l'irrazionale dello sfruttamento gerarchico e della repressione. Ciò che fa il potere astratto
della società fa la sua non‐libertà concreta.
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Capitolo IV
IL PROLETARIATO COME SOGGETTO E COME
RAPPRESENTAZIONE
"L'uguale diritto di tutti ai beni e alle gioie di questo mondo, la distruzione di ogni autorità, la
negazione di ogni freno morale, ecco, se si scende alla radice delle cose, la ragione d'essere
dell'insurrezione del 18 marzo e il proclama della temibile associazione che le ha fornito un
esercito." Inchiesta parlamentare sull'insurrezione del 18 marzo.
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Il movimento reale che sopprime le condizioni esistenti governa la società a partire dalla
vittoria della borghesia nell'economia, e visibilmente dopo la traduzione politica di questa
vittoria. Lo sviluppo delle forze produttive ha fatto saltare i vecchi rapporti di produzione, e
ogni ordine statico si riduce in polvere. Tutto ciò che era assoluto diviene storico.
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Gettati nella storia, dovendo partecipare al lavoro e alle lotte che la costituiscono, gli uomini
si vedono costretti a riflettere sui loro reciproci rapporti in modo disingannato. Questa storia
non ha oggetto distinto da ciò che realizza su se stessa, sebbene l'ultima visione metafisica
inconscia dell'epoca storica possa considerare la progressione produttiva, attraverso la quale
la storia si è sviluppata, come l'oggetto stesso della storia. Il soggetto della storia non può
essere che il vivente producente se stesso, che si fa signore e padrone del suo mondo che è
la storia, e che esiste come coscienza del suo gioco.
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1
Come un'unica corrente si sviluppano le lotte di classe della lunga epoca rivoluzionaria
inaugurata dall'ascesa della borghesia, e il pensiero della storia, la dialettica, il pensiero che
non si arresta più alla ricerca del senso dell'essere, ma si eleva alla conoscenza della
dissoluzione di tutto ciò che è, e nel movimento dissolve ogni divisione.
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Hegel non aveva più da interpretare il mondo, ma la sua trasformazione. Interpretandone
soltanto la trasformazione, Hegel non rappresenta altro che il compimento filosofico della
filosofia. Egli vuole comprendere un mondo che si fa da sé. Questo pensiero storico non è
altro che la coscienza, che arriva sempre troppo tardi e che enuncia la giustificazione post
festum. Così, essa non ha superato la divisione che nel pensiero. Il paradosso che consiste
nel sospendere il senso di ogni realtà al suo compimento storico, e nel rivelare nello stesso
tempo questo senso come costituentesi in se stesso come compimento della storia, deriva
dal semplice fatto che il pensatore delle rivoluzioni borghesi del XVII e XVIII secolo non ha
cercato nella sua filosofia che la riconciliazione con i loro risultati. «Anche come filosofia
della rivoluzione borghese, essa non esprime tutto il processo di questa rivoluzione, ma
soltanto la sua conclusione ultima. In questo senso, essa è una filosofia non della rivoluzione
ma della restaurazione» (Karl Korsch, Tesi su Hegel e la rivoluzione). Hegel per l'ultima volta
ha fatto il lavoro del filosofo, «la glorificazione di ciò che esiste»; ma già ciò che esisteva per
lui non poteva essere ormai che la totalità del movimento storico. Essendo di fatto
mantenuta la posizione esterna del pensiero, questa non poteva essere mascherata che con
la sua identificazione a un progetto preliminare dello Spirito, eroe assoluto che ha fatto ciò
che ha voluto e ha voluto ciò che ha fatto, e il cui adempimento coincide con il presente.
Così, la filosofia che muore nel pensiero della storia non può glorificare il proprio mondo che
rinnegandolo, perché per prendere la parola ha essa ha bisogno di supporre già finita questa
storia totale cui ricondotto ogni cosa e chiusa la sessione dell'unico tribunale cui possa
essere emessa la sentenza della verità.
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Quando il proletariato dimostra con la propria esistenza in atto che questo pensiero della
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storia non si è dimenticato, la smentita della conclusione è anche la conferma del metodo.
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Il pensiero della storia non può essere salvato che divenendo pensiero pratico; e la prassi del
proletariato come classe rivoluzionaria non può essere meno della coscienza storica
operante sulla totalità del mondo. Tutte le correnti teoriche del movimento operaio
rivoluzionario sono uscite da uno scontro critico con il pensiero hegeliano, in Marx come in
Stirner e in Bakunin.
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Il carattere inseparabile della teoria di Marx e del metodo hegeliano è a sua volta
inseparabile dal carattere rivoluzionario di questa teoria, cioè dalla sua verità. E' in ciò che
questa relazione fondamentale è stata generalmente ignorata o mal compresa, o ancora
denunciata come il punto debole di ciò diveniva fallacemente una dottrina marxista.
Bernstein, in Socialismo teorico e socialdemocrazia pratica, rivela perfettamente questo
legame del metodo dialettico e della presa di partito storica, quando deplora le previsioni
poco scientifiche del Manifesto del 1847 sull'imminenza della rivoluzione proletaria in
Germania: «Questa autosuggestione storica, talmente erronea che il primo venuto dei
visionari politici non avrebbe quasi trovato di meglio, sarebbe incomprensibile in un Marx,
che a quell'epoca aveva già seriamente studiato l'economia, se non si dovesse vedere in essa
il prodotto di un residuo della dialettica antitetica hegeliana, di cui Marx, non più di Engels,
non è mai riuscito completamente a disfarsi. In quei tempi di effervescenza generale, ciò gli è
stato tanto più fatale».
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Il rovesciamento che Marx opera con un «salvataggio per trasferimento» del pensiero delle
rivoluzioni borghesi non consiste nel rimpiazzare volgarmente, con lo sviluppo materialistico
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delle forze produttive, il percorso dello Spirito hegeliano che va incontro a se stesso nel
tempo, con la sua oggettivazione identica alla sua alienazione e le sue ferite storiche che non
lasciano cicatrici. La storia divenuta reale non ha più fine. Marx ha distrutto la posizione
separata di Hegel di fronte a ciò che avviene e la contemplazione di un superiore agente
esterno, qualunque esso sia. La teoria non ha altro da sapere che ciò che fa. Al contrario, è la
contemplazione del movimento dell'economia, nel pensiero dominante della società attuale,
l'eredità non rovesciata della parte non‐dialettica nel tentativo hegeliano di un sistema
circolare; E un consenso che ha perduto la dimensione del concetto e che non ha più bisogno
di un hegelismo per giustificarsi, perché il movimento che si tratta di lodare non è più che un
settore senza pensiero del mondo, il cui sviluppo meccanico domina effettivamente il tutto.
Il progetto di Marx è quello di una storia cosciente, li quantitativo, che sopraggiunge nello
sviluppo cieco delle forze produttive semplicemente economiche deve trasformarsi in
appropriazione storica qualitativa. La critica dell'economia politica è il primo atto di questa
fine della preistoria: «Di tutti gli strumenti della produzione, il più grande potere produttivo
è la classe rivoluzionaria stessa».
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Ciò che lega strettamente la teoria di Marx al pensiero scientifico, è la comprensione
razionale delle forze che operano realmente nella società. Ma si tratta fondamentalmente di
un al di là del pensiero scientifico, dove questo viene conservato in quanto superato; si tratta
di una comprensione della lotta e non della legge. «Noi non conosciamo che una scienza
sola: la scienza della storia», si dice ne L'ideologia tedesca.
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L'epoca borghese, che vuole fondare scientificamente la storia, trascura il fatto che questa
scienza disponibile avrebbe dovuto piuttosto essere essa stessa fondata storicamente con
l'economia. Inversamente, la storia dipende radicalmente da questa conoscenza solo in
quanto questa stessa storia resta storia economica. Quanto la parte della storia
nell'economia stessa ‐ il processo globale che modifica i propri dati scientifici di base ‐ abbia
potuto essere trascurata dal punto di vista dell'osservazione scientifica, è d'altra parte ben
dimostrato dalla vanità dei calcoli socialisti che credevano di aver stabilito l'esatta periodicità
delle crisi; e da quando l'intervento costante dello Stato è riuscito a compensare l'effetto
4
delle tendenze verso la crisi, lo stesso tipo di ragionamento vede in questo equilibrio
un'armonia economica definitiva. Se il progetto del superamento dell'economia, il progetto
della presa di possesso della storia, deve conoscere ‐ e riportare a sé ‐ la scienza della
società, non può essere esso stesso scientifico. In quest'ultimo movimento che crede di
dominare la storia presente attraverso una conoscenza scientifica, il punto di vista
rivoluzionario è rimasto borghese.
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Le correnti utopistiche del socialismo, benché fondate esse stesse storicamente sulla critica
dell'organizzazione sociale esistente, possono essere giustamente qualificate come
utopistiche nella misura in cui rifiutano la storia ‐ vale a dire la lotta reale in corso, come
anche il movimento del tempo al di là della perfezione immutabile della loro immagine di
una società felice ‐ ma non perché rifiutino la scienza. I pensatori utopisti sono al contrario
completamente dominati dal pensiero scientifico, quale si era imposto nei secoli precedenti.
Essi cercano il perfetto compimento di questo sistema razionale generale: non si
considerano affatto dei profeti disarmati, perché credono al potere sociale della
dimostrazione scientifica e anche, nel caso del sansimonismo, alla presa del potere da parte
della scienza. In che modo, dice Sombart, «si vorrebbe conquistare con le lotte ciò che deve
essere provato?». Tuttavia la concezione scientifica degli utopisti non si estende fino alla
conoscenza del fatto che alcuni gruppi sociali hanno degli interessi in una data situazione,
delle forze per conservarla e anche delle forme di falsa coscienza corrispondenti a tali
posizioni. Essa dunque resta molto al di qua della realtà storica dello sviluppo della scienza
stessa, che in gran parte si è trovata orientata dalla domanda sociale derivata da tali fattori,
la quale seleziona non solo ciò che può essere ammesso, ma anche ciò che può essere
ricercato. I socialisti utopisti, rimasti prigionieri della forma espositiva della verità scientifica,
concepiscono questa verità secondo la sua pura immagine astratta, come l'aveva vista
imporsi uno stadio molto anteriore della società. Come rilevava Sorel, è sul modello
dell'astronomia che gli utopisti pensano di scoprire e di dimostrare le leggi della società.
L'armonia da loro pensata, ostile alla storia, deriva dal tentativo di applicare alla società la
scienza meno dipendente dalla storia. Essa tenta di farsi riconoscere con la stessa innocenza
sperimentale del newtonismo e il destino felice costantemente postulato «gioca nella loro
scienza sociale un ruolo analogo a quello che si rifà dell'inerzia nella meccanica razionale»
(Materiali per una teoria del proletariato).
5
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L'aspetto deterministico‐scientifico del pensiero di Marx costituì la breccia attraverso la
quale penetrò il processo di ideologizzazione, quando egli era vivo, e ancor di più nell'eredità
teorica lasciata al movimento operaio. L'avvento del soggetto della storia è ancora una volta
rinviato a più tardi ed è la scienza storica per eccellenza, l'economia, che tende, sempre più
ampiamente, a garantire la necessità della propria negazione futura. Ma così viene esclusa
dal campo della visione teorica la pratica rivoluzionaria che è la sola verità di questa
negazione. Così è importante studiare pazientemente lo sviluppo economico e ammettere
ancora, con tranquillità hegeliana, il dolore, ciò che nel suo risultato resta un «cimitero di
buone intenzioni». Ora si scopre che, secondo la scienza delle rivoluzioni, la coscienza arriva
sempre troppo presto e dovrà essere insegnata. «La storia ci ha dato torto, a noi e a tutti
quelli che pensavano come noi. Essa ha mostrato chiaramente che lo stato di sviluppo
economico sul continente era allora ben lontano dall'essere maturo...», dirà Engels nel 1895.
Per tutta la vita, Marx ha conservato il punto di vista unitario della propria teoria, ma
l'esposizione di tale teoria si è spostata sul terreno del pensiero dominante, precisandosi
sotto forma di critica di discipline particolari, specialmente di critica della scienza
fondamentale della società borghese, l'economia politica. E questa mutilazione,
ulteriormente accettata come definitiva, che ha costituito il «marxismo».
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I limiti della teoria di Marx sono naturalmente i limiti della lotta rivoluzionaria del
proletariato della sua epoca. La classe operaia non ha decretato la rivoluzione permanente
nella Germania del 1848; la Comune è stata vinta nell'isolamento. La teoria rivoluzionaria
non può dunque ancora pervenire alla propria esistenza totale. Essere ridotti a difenderla e a
precisarla nella divisione erudita del lavoro, al British Museum, implicava una perdita nella
teoria stessa. E sono proprio le giustificazioni scientifiche tratte sull'avvenire dello sviluppo
della classe operaia, e la pratica organizzativa combinata con queste giustificazioni, che si
sarebbero trasformate in ostacoli per la coscienza proletaria in uno stadio più avanzato.
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Tutta l'insufficienza teorica nella difesa scientifica della rivoluzione proletaria può essere
ricondotta, per il contenuto come per la forma dell'esposizione, a un'identificazione del
proletariato con la borghesia dal punto di vista della conquista rivoluzionaria del potere.
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La tendenza a fondare una dimostrazione della legittimità scientifica del potere proletario
sulla testimonianza di esperimenti ripetuti nel passato ha oscurato, dai tempi del Manifesto,
il pensiero storico di Marx, facendogli sostenere un'immagine lineare dello sviluppo dei modi
di produzione, originato da lotte di classi che finirebbero ogni volta «o per una
trasformazione rivoluzionaria della società intera o con la distruzione comune delle classi in
lotta». Ma nella realtà osservabile della storia, come «il modo di produzione asiatico» ‐
constatava Marx altrove ‐ ha conservato la sua immobilità a dispetto di tutti gli scontri di
classe, così le jacqueries dei servi non hanno mai sconfitto i baroni, né le rivolte degli schiavi
dell'antichità gli uomini liberi. Lo schema lineare perde di vista anzitutto il fatto che la
borghesia è la sola classe rivoluzionaria che sia mai stata vincitrice; e nel contempo che essa
è la sola classe per la quale lo sviluppo dell'economia sia stato causa e conseguenza del
dominio da essa conquistato sulla società. La stessa semplificazione ha condotto Marx a
sottovalutare il ruolo economico dello Stato nella gestione di una società di classe. Se
l'ascesa della borghesia si è mostrata come un affrancamento dell'economia dallo Stato, è
solo nella misura in cui lo Stato antico si confondeva con lo strumento di un'oppressione di
classe in un'economia statica. La borghesia ha sviluppato la propria potenza economica
autonoma nel periodo medievale di indebolimento dello Stato, nel momento della
frammentazione feudale dell'equilibrio dei poteri. Ma lo Stato moderno che, con il
mercantilismo, ha cominciato ad appoggiare lo sviluppo della borghesia, e che è infine
diventato il suo Stato ali'insegna del «laisser faire, laisser passer» si rivela ulteriormente
dotato di una potenza centrale nella gestione calcolata del processo economico. D'altra
parte Marx aveva potuto descrivere, nel bonapartismo, l'abbozzo della burocrazia statale
moderna, fusione di Stato e di capitale, costituzione di un «potere nazionale del capitale sul
lavoro, d'una forza pubblica organizzata per l'asservimento sociale» in cui la borghesia
rinuncia ad ogni vita storica, che non sia la sua riduzione alla storia economica delle cose, e
accetta di «essere condannata allo stesso nulla politico delle altre classi». Qui sono già poste
le basi socio‐politiche dello spettacolo moderno, che in negativo definisce il proletariato
come solo pretendente alla vita storica.
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88
Le due sole classi, che corrispondono effettivamente alla teoria di Marx, le due classi pure
verso le quali conduce ogni analisi nel Capitale, la borghesia e il proletariato, sono anche le
due sole classi rivoluzionarie della storia, ma a condizioni differenti: la rivoluzione borghese è
compiuta; la rivoluzione proletaria è un progetto, nato sulla base della precedente
rivoluzione, ma ne differisce qualitativamente. Col trascurare l'originalità del ruolo storico
della borghesia, si maschera l'originalità concreta di questo progetto proletario che non può
arrivare a nulla se non apportando i propri colori e riconoscendo «l'immensità dei propri
compiti». La borghesia è giunta al potere perché è la classe dell'economia in sviluppo. Il
proletariato non può essere esso stesso il potere se non diventando la classe della coscienza.
Il maturare delle forze produttive non può garantire un tale potere, neanche attraverso
l'alternativa dell'aumento di espropriazione che esso comporta. La conquista giacobina dello
Stato non può essere il suo strumento. Nessuna ideologia può servirgli a trasformare dei fini
parziali in fini generali, perché non può conservare nessuna realtà parziale che gli sia
effettivamente propria.
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Se Marx, in un periodo determinato della sua partecipazione alla lotta del proletariato, si era
aspettato troppo dalla previsione scientifica, al punto di creare la base intellettuale delle
illusioni dell'economicismo, si sa anche che non vi soccombette personalmente. In una nota
lettera del 7 dicembre 1867, accompagnando un articolo in cui egli stesso criticava Il
Capitale, articolo che Engels dovette far passare alla stampa come se fosse stato scritto da
un avversario, Marx ha esposto chiaramente i limiti della propria scienza: «...la tendenza
soggettiva dell'autore ‐ egli era legato e obbligato a essa forse dalla sua posizione di partito e
dal suo passato ‐ vale a dire la maniera in cui presenta a sé o agli altri il risultato finale
dell'odierno movimento, dell'odierno processo sociale, non ha nulla affatto a che vedere col
suo sviluppo effettivo» [1]. Così Marx, denunciando egli stesso le «conclusioni tendenziose»
della sua analisi obiettiva, e con l'ironia del «forse» relativa alle scelte extrascientifiche che
gli sarebbero state imposte, mostra nel contempo la chiave metodologica della fusione dei
due aspetti.
8
90
E' nella stessa lotta storica che bisogna realizzare la fusione della conoscenza e dell'azione, in
modo tale che ognuno di questi termini riponga nell'altro la garanzia della propria verità. La
costituzione della classe proletaria in soggetto rappresenta l'organizzazione delle lotte
rivoluzionarie e l'organizzazione della società nel momento rivoluzionario: è qui che devono
esistere le condizioni pratiche della coscienza, nelle quali si conferma la teoria della prassi
divenendo teoria pratica. Tuttavia, tale questione centrale dell'organizzazione è stata la
meno considerata dalla teoria rivoluzionaria all'epoca in cui si fondava il movimento operaio,
cioè quando questa teoria ancora possedeva il carattere unitario derivante dal pensiero della
storia (e che essa si era appunto assegnata il compito di sviluppare fino ad una unitaria
pratica storica). E' al contrario il luogo dell'inconseguenzadi questa teoria, che ammette la
ripresa di metodi di applicazione statali e gerarchici derivati dalla rivoluzione borghese. Le
forme di organizzazione del movimento operaio, sviluppate sulla base di questa rinuncia
della teoria, hanno di ritorno teso ad impedire la conservazione di una teoria unitaria,
dissolvendola in diverse conoscenze specializzate e parcellari. Questa alienazione ideologica
della teoria non può più quindi riconoscere la verifica pratica del pensiero storico che essa ha
tradito, quando questa verifica sorge dalla lotta spontanea degli operai: essa può solo
concorrere a reprimere la manifestazione e la memoria. Al contrario, queste forme storiche
apparse nella lotta costituiscono il milieu pratico che mancava alla teoria per essere vera.
Esse sono un'esigenza della teoria, ma che non era stata formulata teoricamente. Il soviet
non era una scoperta della teoria. E già prima, la più alta verità teorica dell'Associazione
internazionale dei lavoratori era la sua stessa esistenza messa in pratica.
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I primi successi della lotta portarono l'Internazionale ad affrancarsi dalle influenze confuse
dell'ideologia dominante che sussistevano in essa. Ma la disfatta e la repressione che
incontrò subito, fecero passare in primo piano il conflitto tra due concezioni della rivoluzione
proletaria, che contengono entrambe una dimensione autoritaria, nella quale
l'autoemancipazione cosciente della classe viene abbandonata. In effetti, la querelle
divenuta irriconciliabile fra marxisti e bakunisti era duplice, riguardando
contemporaneamente il potere nella società rivoluzionaria e l'organizzazione presente del
movimento, e passando dall'uno all'altro di questi aspetti, le posizioni degli avversari si
ribaltavano. Bakunin combatteva l'illusione di un'abolizione delle classi attraverso l'uso
autoritario del potere statale, prevedendo il ricostituirsi di una classe dominante burocratica
e la dittatura dei più saggi, o di quelli che sarebbero stati ritenuti tali. Marx, convinto che il
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maturarsi inseparabile delle contraddizioni economiche e dell'educazione democratica degli
operai avrebbe ridotto il ruolo di uno Stato proletario a una semplice fase di legalizzazione
dei nuovi rapporti sociali che si sarebbero imposti oggettivamente, denunciava in Bakunin e
nei suoi partigiani l'autoritarismo di un'élite cospirativa che si era deliberatamente posta al
di sopra dell'Internazionale e concepiva lo stravagante disegno di imporre alla società la
dittatura irresponsabile dei più rivoluzionari, o di coloro che da se stessi si sarebbero
designati come tali. Bakunin in effetti reclutava i suoi partigiani nel quadro di una tale
prospettiva: «Piloti invisibili nel cuore della tempesta popolare, noi dobbiamo dirigere, non
con un potere visibile, ma attraverso la dittatura collettiva di tutti gli alleati. Dittatura senza
fascia, senza titolo, senza diritto ufficiale, e tanto più potente in quanto non avrà alcuna
delle apparenze del potere». Così si sono opposte due ideologie della rivoluzione operaia,
contenenti ognuna una critica parzialmente vera, ma perdendo l'unità del pensiero della
storia e istituendosi esse quali autorità ideologiche. Organizzazioni potenti, come la
socialdemocrazia tedesca e la Federazione anarchica iberica, hanno fedelmente servito o
l'una o l'altra di queste ideologie, e dappertutto il risultato è stato assai diverso da quello che
si era voluto.
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Il fatto di considerare il fine della rivoluzione proletaria come immediatamente presente,
costituisce contemporaneamente la grandezza e la debolezza della lotta anarchica reale
(perché nelle sue varianti individualistiche, le pretese dell'anarchismo restano derisorie). Del
pensiero storico delle moderne lotte di classe, l'anarchia collettivistica mantiene
esclusivamente la conclusione, e la sua esigenza assoluta di tale conclusione si traduce
ugualmente nel disprezzo deliberato del metodo. Così la sua critica della lotta politica è
rimasta astratta, mentre la scelta stessa della lotta economica non viene affermata che in
funzione dell'illusione di una soluzione definitiva, strappata con un sol colpo su questo
terreno, nel giorno dello sciopero generale o dell'insurrezione. Gli anarchici hanno un ideale
da realizzare. L'anarchia è la negazione ancora ideologica dello Stato e delle classi, cioè delle
condizioni sociali stesse dell'ideologia separata. E' l'ideologia della pura libertà che tutto
uguaglia e che rifiuta ogni idea di male storico. Questo punto di vista della fusione di tutte le
esigenze parziali ha dato all'anarchia il merito di rappresentare il rifiuto di tutte le condizioni
esistenti per la totalità della vita, e non nell' ambito di una specializzazione critica
privilegiata: ma il fatto di considerare questa fusione in assoluto, secondo il capriccio
individuale, prima della sua realizzazione effettiva, ha d'altra parte condannato l'anarchismo
a un'incoerenza troppo facilmente contestabile. L'anarchismo non ha che da ripetere, e
rimettere in gioco in ogni lotta, la sua stessa semplice conclusione totale, perché questa
prima conclusione era fin dall'origine identificata con il risultato integrale del movimento.
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Bakunin poteva dunque scrivere nel 1873, abbandonando la Federazione del Giura: «Negli
ultimi nove anni si sono sviluppate in seno all'Internazionale molte più idee di quante ne
servirebbero per salvare il mondo, se le sole idee potessero salvarlo, e sfido chiunque a
inventarne una nuova. Non è più tempo per le idee, ma per i fatti e le azioni». Senza dubbio
questa concezione conserva del pensiero storico del proletariato la certezza che le idee
devono divenire pratica, ma essa abbandona il terreno storico supponendo che le forme
adeguate di questo passaggio alla pratica siano già state trovate e non cambieranno più.
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Gli anarchici, che si distinguono esplicitamente dall'insieme del movimento operaio per la
loro convinzione ideologica, riproducono al proprio interno questa separazione delle
competenze, fornendo un terreno favorevole al dominio informale, su ogni organizzazione
anarchica, dei propagandisti e difensori della propria ideologia, specialisti in genere tanto più
mediocri, in quanto la loro attività intellettuale si propone principalmente la ripetizione di
alcune verità definitive. Il rispetto ideologico dell'unanimità della decisione ha favorito
piuttosto l'attività incontrollata, nella stessa organizzazione, degli specialisti della libertà; e
l'anarchismo rivoluzionario si aspetta dal popolo liberato lo stesso genere di unanimità,
ottenuto con gli stessi mezzi. E d'altra parte, il rifiuto di considerare l'opposizione di
condizioni tra una minoranza, riunita nella lotta attuale, e la società degli individui liberi, ha
nutrito una divisione permanente degli anarchici nel momento della decisione comune,
come dimostra l'esempio di un gran numero di insurrezioni anarchiche in Spagna, circoscritte
e soffocate sul piano locale.
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L'illusione mantenuta più o meno esplicitamente nell'anarchismo autentico è quella
dell'imminenza permanente di una rivoluzione che dovrà dare ragione all'ideologia, e al
modo d'organizzazione pratico derivato dall'ideologia, compiendosi istantaneamente. Nel
1936 l'anarchismo ha realmente condotto una rivoluzione sociale e l'abbozzo, il più avanzato
che mai si sia visto, di un potere proletario. In questa circostanza bisogna ancora notare, da
una parte, che il segnale di un'insurrezione generale era stato imposto dal pronunciamento
dell'esercito. E d'altra parte, nella misura in cui questa rivoluzione non era stata completata
nei primi giorni, dato che esisteva un potere franchista nella metà del paese, appoggiato
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fortemente dall'estero allorché il resto del movimento proletario internazionale era già
vinto, e dato che sopravvivevano nel campo della Repubblica delle forze borghesi o altri
partiti operai statalisti, il movimento anarchico organizzato si è dimostrato incapace di
estendere le mezze‐vittorie della rivoluzione e anche solo di difenderle. I suoi capi
riconosciuti sono divenuti ministri, e ostaggi dello Stato borghese che distruggeva la
rivoluzione per perdere la guerra civile.
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Il «marxismo ortodosso» della Seconda internazionale è l'ideologia scientifica della
rivoluzione socialista, che identifica ogni sua verità con il processo obiettivo nell'economia, e
con il progressivo riconoscimento di questa necessità nella classe operaia educata
dall'organizzazione. Questa ideologia ritrova la fiducia nella dimostrazione pedagogica, che
aveva caratterizzato il socialismo utopistico, ma integrata da un riferimento contemplativo
nel corso della storia: tuttavia, un simile atteggiamento ha perduto sia la dimensione
hegeliana di una storia totale sia l'immagine immobile della totalità presente nella critica
utopistica (in Fourier al massimo grado). E' da un simile atteggiamento scientifico, che non
poteva fare a meno di rilanciare simmetricamente delle scelte etiche, che derivano le vacuità
di Hilferding, quando questi precisa che riconoscere la necessità del socialismo non offre
«alcuna indicazione sull'atteggiamento pratico da adottare. Perché una cosa è riconoscere la
necessità, e un'altra il mettersi al servizio di questa necessità» (Il Capitale finanziario). Coloro
che hanno misconosciuto il fatto che il pensiero unitario della storia, per Marx e per il
proletariato rivoluzionario, non fose affatto distinto da una posizione pratica da adottare,
dovevano essere normalmente vittime della pratica che contemporaneamente avevano
adottato.
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L'ideologia dell'organizzazione socialdemocratica la poneva al servizio dei professori che
educavano la classe operaia; e la forma di organizzazione adottata era la forma adeguata a
questo apprendistato passivo. La partecipazione dei socialisti della Seconda internazionale
alle lotte politiche ed economiche era certo concreta, ma profondamente acritica. Essa era
condotta, in nome dell'illusione rivoluzionaria, secondo una pratica manifestamente
riformista. Così l'ideologia rivoluzionaria doveva essere stroncata dal successo stesso di
12
coloro che la sostenevano. La separazione dei deputati e dei giornalisti nel movimento
riconduceva verso il modo di vita borghese coloro che erano stati già reclutati fra gli
intellettuali borghesi. La burocrazia sindacale costituiva in sensali della forza‐lavoro, da
vendere come merce al suo giusto prezzo, gli stessi che venivano reclutati a partire dalle
lotte dei proletariato industriale e di lì fatti uscire. Perché l'attività di tutti costoro
conservasse qualcosa di rivoluzionario, sarebbe stato necessario che il capitalismo si fosse
trovato opportunamente incapace di sopportare economicamente questo riformismo che
tollerava politicamente nella loro agitazione legalista. E' una simile incompatibilità che la loro
scienza garantiva, e che la storia smentiva ad ogni istante.
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Questa contraddizione, della quale Bernstein, essendo il socialdemocratico più distante
dall'ideologia politica e il più francamente aderente alla metodologia della scienza borghese,
ebbe l'onestà di voler mostrare la realtà, mostrare ‐ e il movimento riformista degli operai
inglesi, facendo a meno di un'ideologia rivoluzionaria, l'aveva già mostrata ‐ non doveva
essere tuttavia dimostrata senza repliche che dallo sviluppo stesso della storia. Bernstein,
sebbene pieno di illusioni sotto altri aspetti, aveva negato che una crisi della produzione
capitalistica sarebbe venuta miracolosamente a forzare la mano ai socialisti che non
volevano ereditare la rivoluzione che mediante questa legittima consacrazione. Il movimento
di profondo sconvolgimento sociale che emerse con la prima guerra mondiale, anche se fu
fertile per la presa di coscienza, dimostrò per due volte che la gerarchia socialdemocratica
non aveva educato rivoluzionariamente, non aveva reso teorici, gli operai tedeschi: prima
quando la grande maggioranza del partito si allineò con la guerra imperialistica e in seguito
quando, nella disfatta, schiacciò i rivoluzionari spartachisti. L'ex‐operaio Ebert credeva
ancora nel peccato, poiché confessava di odiare la rivoluzione «come il peccato». E lo stesso
dirigente si mostrò un buon precursore della rappresentanza socialista, che doveva poco
dopo opporsi come nemico assoluto al proletariato della Russia e del resto del mondo col
formulare l'esatto programma di questa nuova alienazione: «Socialismo vuol dire lavorare
molto».
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Lenin non è stato, come pensatore marxista, che il kautskista fedele e conseguente che
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applicava l'ideologia rivoluzionaria di questo «marxismo ortodosso» nelle condizioni russe;
condizioni che non permettevano la pratica riformista che la Seconda internazionale
riformista portava in contropartita. La direzione esterna del proletariato, agendo attraverso
un partito clandestino disciplinato, sottomesso agli intellettuali divenuti «rivoluzionari di
professione», costituisce qui una professione che non vuole patteggiare con nessuna
professione dirigente della società capitalistica (e il regime politico zarista era d'altra parte
incapace di offrire una tale apertura, la cui base è uno stadio avanzato del potere della
borghesia). Essa diviene dunque la professione della direzione assoluta della società.
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Il radicalismo ideologico autoritario dei bolscevichi si è sviluppato su scala mondiale con la
guerra e con l'affondamento della socialdemocrazia internazionale davanti alla guerra. La
fine sanguinosa delle illusioni democratiche del movimento operaio aveva fatto del mondo
intero una Russia, e il bolscevismo, regnando sul primo varco rivoluzionario che questa
epoca di crisi aveva originato, offriva al proletariato di tutti i paesi il proprio modello
gerarchico e ideologico, per «parlare in russo» alla classe dominante. Lenin non ha
rimproverato al marxismo della Seconda internazionale di essere un'ideologia rivoluzionaria,
ma di aver cessato di esserlo.
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Lo stesso momento storico in cui il bolscevismo ha trionfato per se stesso in Russia, e dove la
socialdemocrazia ha combattuto vittoriosamente per il vecchio mondo, segna la nascita
definitiva di un ordine di cose che è al centro del dominio dello spettacolo moderno: la
rappresentanza operaia si è opposta radicalmente alla classe.
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«In tutte le rivoluzioni anteriori ‐ scriveva Rosa Luxemburg in Rote Fahne del 21 dicembre
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1918 ‐ i combattenti si affrontavano a viso scoperto: classe contro classe, programma contro
programma. Nella rivoluzione presente le truppe di protezione del vecchio ordine non
intervengono sotto le insegne delle classi dirigenti, ma sotto la bandiera di un "partito
socialdemocratico". Se la questione centrale della rivoluzione fosse posta apertamente e
onestamente: capitalismo o socialismo, nessun dubbio, nessuna esitazione sarebbero oggi
possibili nella grande massa del proletariato». Così, qualche giorno prima della sua
distruzione, la corrente radicale del proletariato tedesco scopriva il segreto delle nuove
condizioni che aveva creato tutto il processo anteriore (e al quale aveva grandemente
contribuito la rappresentanza operaia): l'organizzazione spettacolare della difesa dell'ordine
esistente, il regno sociale delle apparenze in cui nessuna «questione centrale» può più
essere posta «apertamente e onestamente». La rappresentanza rivoluzionaria del
proletariato, a questo stadio, era divenuta contemporaneamente il fattore principale e il
risultato centrale della falsificazione generale della società.
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L'organizzazione del proletariato sul modello bolscevico, era nata dall'arretratezza russa e
dalla rinuncia alla lotta rivoluzionaria da parte del movimento operaio dei paesi avanzati,
incontrò anche nell'arretramento russo tutte le condizioni che portavano questa forma
d'organizzazione verso il rovesciamento controrivoluzionario che essa inconsciamente già
conteneva nel proprio germe originario; e la rinuncia reiterata della massa del movimento
operaio europeo davanti al hic Rhodus, hic salta del periodo 1918‐1920 ‐ rinuncia che
implicava la distruzione violenta della propria minoranza radicale ‐ favori lo sviluppo
completo del processo e lasciò che il suo risultato menzognero si affermasse davanti al
mondo come la sola soluzione proletaria. La conquista del monopolio statale della
rappresentanza e della difesa del potere operaio, che giustificò il partito bolscevico, lo fece
divenire ciò che era: il partito dei proprietari del proletariato, eliminando per l'essenziale le
precedenti forme di proprietà.
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Tutte le condizioni della liquidazione dello zarismo delineate nel dibattito teorico sempre
insoddisfacente delle diverse tendenze della socialdemocrazia russa per vent'anni ‐
debolezza della borghesia, peso della maggioranza contadina, ruolo decisivo di un
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proletariato concentrato e combattivo ma estremamente minoritario nel paese ‐ rivelarono
infine nella pratica la loro soluzione, attraverso un dato che non era presente nelle ipotesi: la
burocrazia rivoluzionaria che dirigeva il proletariato, impadronendosi dello Stato, diede alla
società un nuovo dominio di classe. La rivoluzione strettamente borghese non era possibile;
la «dittatura democratica degli operai e dei contadini» era priva di senso; il potere proletario
dei soviet non poteva mantenersi contemporaneamente contro la classe dei contadini
proprietari, la reazione bianca nazionale e internazionale, e la sua stessa rappresentanza
esteriorizzata e alienata in partito operaio dei padroni assoluti dello Stato, dell'economia, di
ogni forma di espressione e presto anche del pensiero. La teoria della rivoluzione
permanente di Trotsky e Parvus, alla quale Lenin aveva effettivamente aderito nell'aprile
1917, era la sola a divenire vera per i paesi arretrati nei confronti dello sviluppo sociale della
borghesia, ma soltanto dopo l'introduzione di questo fattore sconosciuto che era il potere di
classe della burocrazia. La concentrazione della dittatura nelle mani della rappresentanza
suprema dell'ideologia fu difesa nel modo più coerente da Lenin, nei numerosi scontri
all'interno della direzione bolscevica. Lenin aveva ogni volta ragione contro i suoi avversari
per il fatto di sostenere la soluzione implicata dalle precedenti scelte del potere minoritario
assoluto: la democrazia rifiutata statalmente ai contadini doveva esserlo anche agli operai,
ciò che portava a rifiutarla ai dirigenti comunisti dei sindacati, dunque in tutto il partito, e
infine anche al vertice della gerarchia del partito. Al X Congresso, nel momento in cui il soviet
di Kronstadt veniva abbattuto con le armi e sepolto sotto le calunnie, Lenin pronunciava
contro i burocrati di sinistra organizzati in «Opposizione Operaia» questa conclusione, di cui
Stalin avrebbe poi in seguito esteso la logica fino a una perfetta divisione del mondo: «Qua o
là con un fucile, ma non con l'opposizione... Ne abbiamo abbastanza dell'opposizione».
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La burocrazia rimasta unica proprietaria di un capitalismo di Stato, si è dapprima assicurata il
potere mezzo di un'alleanza temporanea con la classe contadina, dopo Kronstadt, al
momento della «nuova politica economica», mentre l'ha difeso all'esterno utilizzando gli
operai irreggimentati nei partiti burocratici della Terza internazionale, come forza
d'appoggio della diplomazia russa, per sabotare ogni movimento rivoluzionario e sostenere i
governi borghesi, sul cui sostegno poteva contare in politica internazionale (il potere del
Kuomintang nella Cina del 1925‐27, il Fronte Popolare in Spagna e in Francia ecc.). Ma la
società burocratica doveva perseguire il proprio compimento attraverso il terrore esercitato
sulle masse contadine, per realizzare l'accumulazione primitiva di capitale più brutale della
storia. Questa industrializzazione dell'epoca staliniana rivela la realtà ultima della burocrazia:
essa è la continuazione del potere dell'economia, il salvataggio dell'essenziale della società
mercantile che mantiene il lavoro‐merce. E' la prova offerta dall'economia indipendente, che
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domina la società al punto di ricreare per i propri fini il dominio di classe che le è necessario:
il che equivale a dire che la borghesia ha creato una potenza autonoma la quale, fintanto che
sussiste questa autonomia, può arrivare al punto di fare a meno di una borghesia. La
burocrazia totalitaria non è «l'ultima classe proprietaria della storia», nel senso che le
attribuiva Bruno Rizzi, ma solamente una classe dominante di sostituzione per l'economia
mercantile. La proprietà privata capitalistica venuta meno viene sostituita da un
sottoprodotto semplificato, meno diversificato, concentrato in proprietà collettiva della
classe burocratica. Questa forma sottosviluppata di classe dominante è anche l'espressione
del sottosviluppo economico; e non ha altra prospettiva che quella di recuperare il ritardo di
questo sviluppo in alcune regioni del mondo. E' stato il partito operaio, organizzato secondo
il modello borghese della separazione, a fornire l'impianto gerarchico‐statale a questa
edizione supplementare della classe dominante. Anton Ciliga scriveva in una prigione di
Stalin che «le questioni tecniche di organizzazione si rivelavano essere delle questioni
sociali» (Lenin e la Rivoluzione).
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L'ideologia rivoluzionaria, la coerenza del separato di cui il leninismo costituisce il più alto
sforzo volontaristico, detenendo la gestione di una realtà che la respinge, con lo stalinismo
tornerà alla sua verità nell'incoerenza. A questo punto l'ideologia non è più un'arma, ma un
fine. La menzogna che non è più contraddetta diventa follia. La realtà, così come lo scopo,
vengono dissolti nella proclamazione ideologica totalitaria: tutto ciò che essa dice è tutto ciò
che è. E' un primitivismo locale dello spettacolo, il cui ruolo è tuttavia essenziale nello
sviluppo dello spettacolo mondiale. L'ideologia che qui si materializza non ha trasformato
economicamente il mondo, come il capitalismo giunto allo stadio dell'abbondanza; essa ha
solamente trasformato poliziescamente la percezione.
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La classe ideologico‐totalitaria al potere è il potere di un mondo rovesciato; più essa è forte,
più afferma che non esiste, e la sua forza le serve prima di tutto ad affermare la sua
inesistenza. Essa è modesta su questo solo punto, perché la sua inesistenza ufficiale deve
anche coincidere col nec plus ultra dello sviluppo storico, che al tempo stesso sarebbe
dovuto al suo infallibile comando. Operante dappertutto, la burocrazia deve essere la classe
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invisibile per la coscienza, di modo che è poi tutta la vita sociale che diviene demente.
L'organizzazione sociale della menzogna assoluta deriva da questa contraddizione
fondamentale.
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Lo stalinismo fu il regno del terrore nella classe burocratica stessa. Il terrorismo che fonda il
potere di questa classe deve colpire anche questa classe, perché essa non possiede nessuna
garanzia giuridica, nessuna esistenza riconosciuta in quanto classe proprietaria, che possa
estendere a ciascuno dei suoi membri. La sua proprietà reale è dissimulata, ed essa non è
divenuta proprietaria che per la via della falsa coscienza. La falsa coscienza mantiene il
proprio potere assoluto solo attraverso il terrore assoluto, in cui ogni vero motivo finisce per
perdersi, l membri della classe burocratica al potere non hanno diritto di possesso sulla
società che collettivamente, in quanto partecipi di una fondamentale menzogna: bisogna che
essi recitino il ruolo del proletariato che dirige una società socialista: che siano gli attori
fedeli al testo dell'infedeltà ideologica. Ma l'effettiva partecipazione a questo essere
menzognero deve vedersi al tempo stesso riconosciuta come una partecipazione veridica.
Nessun burocrate può sostenere individualmente il proprio diritto al potere, perché provare
che egli è un proletario socialista significherebbe manifestarsi come il contrario di un
burocrate; e provare che egli è un burocrate è impossibile, poiché la verità ufficiale della
burocrazia è di non essere. Così ogni burocrate si trova a dipendere in modo assoluto da una
garanzia centrale dell'ideologia, che riconosce una partecipazione collettiva al suo «potere
socialista» da parte di tutti i burocrati che essa non annienta. Se i burocrati presi nel loro
complesso decidono su tutto, la coesione stessa della loro classe non può essere assicurata
che attraverso la concentrazione del loro potere terroristico in una sola persona. In questa
persona risiede la sola verità pratica della menzogna al potere: la fissazione indiscutibile
della sua frontiera sempre rettificata. Stalin decide senza appello chi è alla fine burocrate
possidente: cioè chi deve venire chiamato «proletario al potere» oppure «traditore al soldo
del Mikado o di Wall Street». Gli atomi burocratici non trovano l'essenza comune del loro
diritto se non nella persona di Stalin. Stalin è questo sovrano del mondo che si sa in questo
modo come la persona assoluta, per la cui coscienza non esiste spirito più alto. «Il sovrano
del mondo possiede la coscienza effettiva di ciò che egli è ‐ della potenza universale
dell'effettualità, nella violenza distruttrice che egli esercita contro il sé di coloro che lo
contrastano». Mentre è la potenza che definisce il terreno del dominio, egli è nello stesso
tempo «la potenza che devasta questo terreno».
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Quando l'ideologia, diventata assoluta con il possesso del potere assoluto, è mutata da una
conoscenza parcellare in menzogna totalitaria, il pensiero della storia è stato così
perfettamente annientato che la storia stessa, a livello della conoscenza più empirica, non
può più esistere. La società burocratica totalitaria vive in un presente perpetuo, in cui tutto
ciò che è avvenuto esiste soltanto per essa, come spazio accessibile alla sua polizia. Il
progetto, già formulato da Napoleone, di «dirigere monarchicamente l'energia dei ricordi»
ha trovato la sua concretizzazione totale, in una manipolazione permanente del passato, non
soltanto nei significati, ma nei fatti. Ma il prezzo di questa liberazione da ogni realtà storica è
la perdita del riferimento razionale che è indispensabile alla società storica del capitalismo. Si
sa ciò che l'applicazione scientifica dell'ideologia, divenuta folle, è potuta costare
all'economia russa, non fosse che con l'impostura di Lyssenko. Questa contraddizione della
burocrazia totalitaria che amministra una società industrializzata, presa fra il suo bisogno del
razionale e il suo rifiuto del razionale, costituisce anche una delle sue principali deficienze nei
confronti del normale sviluppo capitalistico. Come, in rapporto ad esso, la burocrazia non
può risolvere la questione dell'agricoltura, così gli è finalmente inferiore nella produzione
industriale, pianificata autoritariamente sulle basi dell'irrealismo e della menzogna
generalizzata.
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Il movimento operaio rivoluzionario, del periodo fra le due guerre, fu annientato dall'azione
congiunta della burocrazia stalinista e del totalitarismo fascista, che aveva preso a prestito la
propria forma organizzativa dal partito sperimentato in Russia. Il fascismo ha costituito una
difesa estremistica dell'economia borghese, minacciata dalla crisi e dalla sovversione
proletaria, lo stato d'assedio nella società capitalistica, attraverso cui questa società si salva
e si dà d'urgenza una prima razionalizzazione, facendo intervenire massicciamente lo Stato
nella sua gestione. Ma una tale razionalizzazione è essa stessa gravata dell'immensa
irrazionalità del suo mezzo. Se il fascismo si pone a difesa dei principali punti dell'ideologia
borghese divenuta conservatrice (la famiglia, la proprietà, l'ordine morale, la nazione),
riunendo la piccola borghesia e i disoccupati impazziti dalla crisi o delusi dell'impotenza della
rivoluzione socialista, non è esso stesso sostanzialmente ideologico. Esso si dà per quello che
è: una violenta resurrezione del mito, che esige la partecipazione a una comunità definita da
pseudovalori arcaici: la razza, il sangue, il capo. Il fascismo è l'arcaismo tecnicamente
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equipaggiato. Il surrogato decomposto dal mito, ripreso nel contesto spettacolare dei mezzi
di condizionamento e di illusione più moderni. Così, esso è uno dei fattori nella formazione
del moderno spettacolare, nella misura in cui la sua parte nella distruzione del vecchio
movimento operaio fa di lui una delle potenze fondatrici della presente società; ma dato che
il fascismo viene ad essere anche la forma più costosa del mantenimento dell'ordine
capitalistico, avrebbe dovuto normalmente abbandonare il fronte della scena che occupano i
grandi ruoli degli Stati capitalistici, per essere sostituito da forme più razionali e più forti di
questo stesso ordine.
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Quando la burocrazia russa è riuscita finalmente a disfarsi delle tracce della proprietà
borghese, che intralciavano il suo dominio sull'economia, a sviluppare questa per il proprio
uso, e ad essere riconosciuta all'esterno tra le grandi potenze, essa vuole godere
tranquillamente del proprio mondo e sopprimere quella parte di arbitrio che si esercitava su
essa stessa: essa denuncia lo stalinismo della sua origine. Ma una tale denuncia rimane
stalinista, arbitraria, inesplicata e continuamente corretta, perché la menzogna ideologica
della sua origine non può mai essere rivelata. In questo modo la burocrazia non può
liberalizzarsi né culturalmente né politicamente, perché la sua esistenza come classe dipende
dal suo monopolio ideologico che, con tutta la sua pesantezza, è il suo solo titolo di
proprietà. L'ideologia ha certamente perduto la passione per la sua affermazione positiva,
ma ciò che ne sussiste di trivialità indifferente ha ancora questa funzione repressiva di
proibire anche la minima concorrenza, di dominare la totalità del pensiero. La burocrazia è
così legata a un'ideologia che non è più creduta da nessuno. Ciò che era terroristico è
divenuto derisorio, ma questa stessa derisione non può mantenersi che conservando in
secondo piano il terrorismo di cui vorrebbe disfarsi. Così, nel momento stesso in cui la
burocrazia vuole mostrare la propria superiorità sul terreno del capitalismo, essa si rivela un
parente povero del capitalismo. Come la sua storia effettiva è in contraddizione col suo
diritto, e la sua ignoranza grossolanamente mantenuta in contraddizione con le sue pretese
scientifiche, il suo progetto di rivaleggiare con la borghesia nella produzione di
un'abbondanza mercantile è ostacolato dal fatto che un'abbondanza del genere porta in se
stessa la propria ideologia implicita e si accompagna normalmente a una libertà
indefinitamente estesa di false scelte spettacolari, pseudolibertà che rimane inconciliabile
con l'ideologia burocratica.
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