Regalo di compleanno1 .pdf
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Titolo: Matteo Lobina
Autore: MATTEO
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Matteo Lobina
Una coccinella sul soffitto
Cosa rimane di noi, dei miei silenzi nei tuoi… Massimo di
Cataldo si impadronisce del bus. È una mossa inaspettata. Le
mie orecchie nemmeno lo riconoscono, devo chiedere a Silvia.
È un autobus di quelli per turisti. Fino a un secondo fa
c’erano i Tazenda dei bei tempi, una sorta di best of in un
sardo che non è il mio, che non capisco del tutto e che però
ai turisti piace. Noi su quel bus, non siamo turisti. Forse
lo sono quei due ragazzi probabilmente indiani lì in fondo,
quel
tipo
stempiato
che
deve
imbarcarsi
a
Olbia
perché
domani deve tornare a Campobasso e che ci prova con la
commessa in minishorts e unghie bicolore seduta nel sedile
davanti a Silvia.
Campobasso?
Basilicata?
Ah,
Molise!,
è
disoccupata,
la
commessa, ma sai ti sfruttano quando lavori. E che ti credi
che a Campobasso sia diverso?, io sto nella ristorazione e
lavoro diciassette
ore al giorno. Hai mai provato nella
ristorazione?.
Deve
essere
un’ipotesi
allettante
per
lo
stempiato.
Diciassette ore però non piacciono alla commessa. Riprende
in mano lo smartphone, annoiata, lei il lavoro lo ha sempre
trovato come commessa, commessa di negozi di abbigliamento.
Sullo sfondo, lei, in bikini con un’amica con un cappello di
paglia, sorride. Le dita sullo schermo coprono il costume.
Lo stempiato ammutolisce. Davanti un vecchio forse tedesco
guarda la strada. A Chilivani ci abbandona l’esperto degli
orari del treno, non ha un capello in testa e a giudicare
dalla stempiatura del molisano comincio a pensare ci sia
un’epidemia in corso. Mi passo istintivamente una mano sulla
mia di testa. Tutto okay, i capelli sono ancora al loro
posto. Con l’esperto degli orari del treno scende anche una
ragazza dallo sguardo gentile, deve andare a Monti, cioè è
di Telti ma la fermata è la stessa. Verranno a prenderla ci
informa.
Ciao!, un coro avvolge la loro discesa.
Somiglia alla figlia di Pinna, quello che a casa, a Quartu,
mi chiede di spostare la Smart se occupo il parcheggio sotto
la sua finestra, se no la sua Renault luccicante vecchiaia
non la vede dalla sua finestra e magari chissà, metti che
gliela rubino. Pinna mi fa pensare a Papà. Nel senso, mi fa
pensare
a
casa,
Papà
non
si
ricorda
nemmeno
dove
la
parcheggia la sua di Renault e ogni volta è un’avventura
ritrovarla. Ci ha accompagnato alla stazione a Cagliari,
Papà. L’ho trovato bene, sono andato via da una settimana ed
è ancora tutto a posto.
Un asciugamano per il mare, consumato, un asciugamano che
avrà visto le estati del 1985 ad oggi, campeggiava e credo
campeggi ancora nel bagno, al posto di quello della doccia,
ma per il resto tutto in ordine, ha dato una mano di vernice
alle finestre e non lo faceva da anni.
Silvia
si
addormenta.
Domani
lavora.
Di
nuovo
a
Olbia,
undici mesi dopo l’alluvione, manco i masochisti.
Non è cambiato niente e sono ancora qui… Massimo di Cataldo
strilla nelle casse, mi rimbomba nelle tempie. Esci dal mio
cervello, nemmeno ti conosco, chi ti ha mai ascoltato, non
mi sei mai piaciuto, credo.
Guardo
Silvia,
gatto.
È
gli
rilassata.
occhi
A
strizzati
gennaio
dolcemente,
saranno
dieci
come
anni
un
che
sopporta la mia vita, le mie depressioni, la mia attitudine
a finire sempre alla deriva e tutto il resto. E io in cambio
la amo da vicino, anche adesso che la accompagno per un po’,
di nuovo lì, a Olbia, undici mesi dopo quell’alluvione che
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ci beccammo in pieno, ma che non ci travolse forse perché
eravamo già stati travolti da qualcos’altro due mesi prima.
E ora, io, in attesa di una mail che in questi giorni forse
cambierà la mia di vita, la sua, anche se lei se ne starà a
Olbia un po’ anche senza di me.
Il capotreno interrompe i discorsi con un autista smilzo e
sbadigliante. Sembrano conoscersi. Interessanti discorsi sui
consumi di un bus di quelle dimensioni li impegnano a fondo
e, insomma li interrompe quei discorsi e ci informa che non
manca molto.
Mi arriva una mail sul telefono. Un brivido, un vuoto d’aria
nello stomaco. L’oggetto recita: Furgoni. La chiudo, come
sempre. Meglio di quella che cinque minuti fa mi invitava ad
allevare
lumache
descrivendomelo
come
il
business
del
futuro. Subisce la stessa sorte. Anzi una peggiore. Non la
leggo nemmeno. Sorrido, mi arriva spesso un messaggio del
signor Furgoni e non lo leggo mai. Magari se l’avessi letto,
questa volta avrei imparato qualcosa sui consumi di un bus
di elevate dimensioni. Il capotreno continua a parlarne, è
colpa anche sua se siamo sul bus.
Il treno che ci aveva accolti a Cagliari, che ci aveva
guidato
per
quasi
due
terzi
di
isola
ci
ha
lasciati
a
Macomer. Lì un duevagoni col singhiozzo ci ha fatto provare
l’ebbrezza della sosta prolungata nella campagna sarda, un
far west umido, buio e senza pistole. Lì, fermi nel nulla,
si sono conosciuti la commessa e il molisano. E abbiamo
scoperto
che
la
stagione
dei
turisti
commessa,
è
oramai
finita,
disoccupata
un
treno
perché
prima
di
la
quel
giorno, di oggi, non l’aveva mai preso. E il molisano non
poteva non guardare e notare che indossasse dei mini short e
ogni tanto provasse ad allungarseli con delle dita ornate di
unghie bicolore. Lì abbiamo capito che almeno uno tra di noi
conosceva gli orari dei treni, ma proprio tutti, anche se
forse non ci sarebbe stato per niente utile e abbiamo capito
che gli indiani o giù di lì
forse erano turisti e non
avevano rose da venderci come qualcuno doveva aver pensato.
Il duevagoni traditore non ci ha condotti a Olbia, è tornato
indietro,
di
nuovo
a
Macomer
e
di
nuovo
singhiozzando,
arrancando come un malato meccanico che rifiuta la pensione
forzata.
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A
Macomer
un
autista
smilzo
dalla
faccia
triste
e
sbadigliante ci ha condotti, capotreno compreso, sul suo bus
abitato dai Tazenda e Di Cataldo.
Solo
un
tizio
con
gli
occhi
azzurri
si
è
rifiutato
di
salire. Aveva l’accento dell’interno. Si doveva imbarcare e
per questo aveva legato col molisano. Ma tanto poteva farlo
di nuovo domani, imbarcarsi, che cosa ci faceva lì a Olbia e
rischiare di arrivare tardi?. Come dargli torto. Una volta
sul bus nessuno ha più pensato a lui. Volevamo solo arrivare
a Olbia.
-Lo sai che sul tetto c’è una coccinella?
Silvia
apre
gli
occhi,
ma
sembra
ancora
annebbiata
dal
sonno. Guarda in alto. Si schiarisce la gola. Un filo di
voce.
-Cosa?
-No, non qui, a Olbia, a casa nostra, sul tetto, cioè
non
sul
tetto,
sul
soffitto,
l’altro
ieri
c’era
una
coccinella. Ho aperto la finestra per farla volare via, ma
non se ne è andata. Silvia mi guarda, sorride. Sussurra un
davvero, si stringe nelle spalle e strizza di nuovo gli
occhi. Dolcemente. Le sono sempre piaciute le coccinelle. La
commessa chiama qualcuno con il cellulare. È uno smartphone
che gli copre tutto il lato sinistro del viso.
-Vieni a prendermi all’Isola Bianca. Sì, sì passiamo
prima dal porto c’è gente che si imbarca. Ciao.
Chiude. L’Isola Bianca intuisco sia il porto. Al molisano
non
sembra
vero.
Scenderanno
insieme.
Il
bus
sfiora
il
centro di Olbia e sfreccia lungo un viale circondato dal
mare, il cielo attorno è illuminato dal riflesso giallo dei
lampioni. L’acqua del porto si confonde, calma, in quel
pallido chiarore.
I Looney Tunes ci salutano dalla nave, immensa e bianca,
coccolata dalle acque del porto.
I ritardatari ce l’hanno fatta. Il bus si infila in un
posteggio. Scendono tutti. Rimaniamo solo io, Silvia e un
tizio che non ha mai aperto bocca per tutto il viaggio.
Al piano inferiore si compie il rito dei saluti. Non vedo
più la commessa, il molisano, gli indiani e quel vecchio
forse tedesco. La Mannoia sostituisce Di Cataldo, ma io non
me ne curo troppo e per un attimo credo ci siano di nuovo i
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Tazenda. Chissà se li rivedrò mai, non i Tazenda, intendo
quei
ragazzi,
quel
vecchio
forse
tedesco.
Non
credo
mi
mancheranno.
L’autista triste e il capotreno risalgono sul bus. Ridono.
La faccia triste dell’autista sembra contorcersi. Non deve
essere abituato a ridere.
-Gli ha dato picche?
-C’era già qualcuno a prenderla.
Ridono ancora.
Non sanno che il molisano ha già chiesto le generalità alla
commessa e pure lo spelling perché i cognomi sardi a volte
sono
diversi
e
per
chi
non
li
ha
mai
sentiti
possono
sembrare strani, e l’ha rassicurata che già se l’è presa la
cuccetta sulla nave, che sul ponte con tutti quei Looney
Tunes non si sarebbe riposato abbastanza per il treno che da
Civitavecchia
lavoro
a
l’avrebbe
Campobasso
l’amicizia
e
se
lei
condotto
e
che
su
l’accetterà
alle
diciassette
gli
cominceranno
ore
di
chiederà
a
parlarsi
davvero, a conoscersi meglio e magari da cosa nasce cosa e
chissà. Ma l’autista e il capotreno la sanno lunga e lo
sanno
che
molisano
quella
non
era
esistono
ed
è
una
speranze.
partita
Forse
persa
mi
e
per
mancherà
il
quel
molisano.
Silvia si ricompone. È sveglia ormai e siamo praticamente
arrivati.
La stazione è molto più triste del porto, molto più triste
del nostro autista sbadigliante. I binari sono divorati dal
buio
e
circondati
di
sterpaglie
e
per
arrivare
a
casa
dobbiamo attraversarli per forza, un passaggio obbligato, a
nostro rischio e pericolo. Deve essere la norma però.
Il capotreno li percorre con noi.
-Buona serata!
-Anche a lei!
Pure l’autista del bus ci aveva salutato così, recuperando
un’inattesa cordialità.
Oltre la stazione per dove dobbiamo andare noi non ci sono
autobus a quest’ora. Abbiamo scelto Olbia Mare, lì c’è la
farmacia dove lavora Silvia e lì dicono che oltre ai turisti
e a qualche residente ci siano, ci vivano solo puttane. Cioè
me l’ha detto un tizio, l’altra mattina, al bar e non so
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perché
ha
voluto
discorrere
con
me
mentre
addentavo
un
cornetto e bevevo il caffè. Io non gli ho risposto, anche
perché masticavo e non è buona educazione.
Dominicane e rumene, gente ben equipaggiata, mi ha spiegato.
Forse chiede loro il passaporto prima di andarci. Chissà se
lo fa prima o dopo aver consumato, se per lui fa curriculum.
A me e Silvia, Olbia Mare piace. Durante l’alluvione si è
bagnata poco e non è affogata come è successo altrove. E
questo a noi basta. E per un po’ staremo lì, almeno lei di
sicuro, io fino a quando deciderà quella mail che mi fa
penare, in un’attesa a cui in realtà dovrei essere abituato.
Non abbiamo bagagli pesanti, ma siamo costretti al taxi.
Aspettiamo
alcuni
minuti
in
silenzio.
Abraccio
un
po’
Silvia, ha la pelle profumata come sempre. Aspettiamo in
piedi, stretti tra di noi. La borsa sul marciapiede. Non fa
freddo e fa piacere stare lì, impalati, stretti. In strada
poca
gente
passeggia,
perlopiù
solitari
che
rientrano
a
casa. Qualche macchina ci illumina coi fari, ma senza farlo
apposta. Ecco un’Audi. Dentro un molosso con la testa rasata
e
due
braccia
grosse
come
dischi.
Un
bel
tatuaggio
sul
braccio destro, sembra, nella penombra, una fenice. Chissà
da dove viene, da dove rinasce.
È
il
nostro
pilota,
il
molosso.
E
quello
di
non
avere
capelli deve essere una moda di qui. Una mano, la sinistra,
senza motivo apparente mi sconvolge la pettinatura. Tutto in
ordine, a parte la pettinatura che ormai è andata. Sono
ancora orgogliosamente fuori moda.
Il tassista molosso mi ricorda i marines americani, io non
l’ho mai visto del vivo uno, chissà Silvia, ma non è il
momento di chiederglielo. Magari è in incognito, con l’Isis
e quelli come loro non si sa mai e la sua Audi bianca è solo
una copertura. Qui poi, a due passi, c’è la Costa Smeralda e
tutto può essere. Il tassista molosso, probabile marine ci
mitraglia subito con dei se avrei potuto andarmene lo avrei
fatto, Olbia d’inverno a chi piace?, ma se non avrei questo
lavoro
non
ci
camperei
e
comunque
Cagliari
è
meglio
di
Olbia?, se avrei tempo ci andrei, ma Quartu fa comune a sé?.
Sarebbe
abitanti,
la
ma
terza
io
città
non
della
glielo
Sardegna
dico,
sono
per
numero
tramortito
e
di
non
voglio guai, magari morde, e non lo so se Olbia è meglio o
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peggio di qualcosa, chi la conosce Olbia, Cagliari è più
grande, su questo non si può non essere d’accordo.
Non conosce la via del nostro appartamento e lungi da lui
avere un navigatore o qualcosa di simile. Gliela indichiamo
noi che di Olbia non conosciamo nulla. Arriviamo comunque in
poco più di dieci minuti. Il traffico è inesistente.
-Si fermi lì, di fronte ai dissuasori.
Non sa cosa voglia dire, cosa siano i dissuasori, ma non lo
dice e fa come per girare, ma lo anticipo:
-Si fermi di fronte a quei cosi rossi e bianchi.
-Ah, ecco!
-Ma a Olbia avete un numero per i taxi?
-No, tieni il mio biglietto così chiami sempre me. A
qualunque ora mi dici bella Giò, mi servi qui oppure
qua,
devo
andare
qui
oppure
qua.
Non
ci
sono
problemi.
Una vena gli si contrae nel mezzo del bicipite, la fenice si
scuote come attraversata da un lampo mentre Giò mi passa il
biglietto da visita. Siamo amici ormai.
GiòTaxi, dovessi andare qui oppure qua ti chiamerò. Gli do
due
euro
racconto
di
per
mancia,
i
le
copie
tre
diritti
d’autore
vendute
di
del
quel
mio
ultimo
Bulgaro
che
leggono in pochi, pochissimi, ma che se lo leggi ti piace e
poi mi guardi in maniera diversa come fossi uno scrittore,
uno di quelli veri.
La via è illuminata a dovere. È intitolata a uno scrittore,
di quelli veri, ma che non ho mai studiato. GiòTaxi ci
lascia,
ci
saluta
con
un
colpo
di
clacson,
incurante
dell'ora. È nata un’amicizia e per la seconda volta mi pento
di non avere ancora letto la mail del signor Furgoni. Avrei
potuto parlare di consumi,
di benzina, chilometri e far
passare il tempo, in allegria.
Allungo una mano verso l’interruttore che fa scattare il
portoncino,
ho
dimenticato
la
chiave
e
mi
atteggio
a
residente. Il condominio ha un nome. C’è una targa di fianco
al portoncino. Non lo sapevo. Silvia nemmeno.
Le Coccinelle, si chiama così.
Un brivido. Una scoperta strana. Ci guardiamo appena. Non
abbiamo bisogno di dirci nulla. Di colpo sappiamo cosa ci
aspetta, vogliamo vedere se c’è ancora, se esiste. Abbiamo
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fretta
e
la
stanchezza
del
viaggio
improvvisamente
è
scomparsa.
Corriamo per le scale facendo attenzione a non inciampare, a
non
urtarci,
Silvia
domani
lavora
e
deve
andarci
tutta
intera. Ecco il secondo piano, l’interno tredici in barba
alla
superstizione
tutta
americana
che
qualcuno
voleva
contagiarci. Apro la porta, tre giri verso la luce. Una mano
sull’interruttore.
salotto,
camera
Guardiamo
in
Ecco
da
alto.
la
letto.
Una
luce.
Siamo
È
monolocale
un
coccinella
già
cammina
in
cucina,
d’altronde.
timida
sul
soffitto, vicino al lampadario, sopra il divano. Do un bacio
sulla guancia destra di Silvia, come per sorprenderla, la
afferro
con
dolcezza.
Lei
si
lascia
andare
tra
le
mie
braccia. Lo sguardo verso l’alto. Avevo ragione, qui a Le
coccinelle c’è una coccinella sul soffitto.
Ti chiameremo Gregory e io ti racconterò i miei sogni, i
miei ideali e se vorrai ti leggerò i miei racconti e chissà
chi eri prima, chissà chi sei, perché non voli via, perché
non
l’hai
già
fatto.
Perché
vuoi
stare
con
noi
a
Le
coccinelle. Forse è casa tua, non nostra. Sì Gregory, ci
prenderemo cura di te. E non ti dimenticheremo, chiunque tu
sia.
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